La polemica innescata in questi giorni dal Ministro per le Riforme Umberto Bossi sull’inno nazionale ed i dialetti è emblematica (cfr. Dichiarazione pubblica: 16 agosto 2009, “Festa della Lega” a Ponte di Legno  – Bergamo). Emblematici lo sono, del resto, tutti i segni di grave malessere che ci provengono dalle istituzioni attraverso l’ondata ricorrente di polemiche a basso contenuto culturale ma ad altissimo tasso propagandistico.

Che la mia posizione sull’argomento sia critica, lo denuncio subito per ragioni di onestà nei confronti del lettore. Una posizione che non mi porterà, tuttavia, ad addentrarmi nell’analisi degli assetti politici italiani. Piuttosto mi pare sufficientemente interessante mantenere uno sguardo equidistante, da cittadino della Repubblica, per interrogarci seriamente sullo stato di salute delle nostre istituzioni attraverso una panoramica d’orizzonte e d’insieme sul nostro Paese.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intervenendo con preoccupazione, ha dichiarato più volte come la politica italiana sia afflitta da tempo da un grave degrado linguistico. La politica ha oggi poco di rilevante da dire, e lo dice male. La politica smarrisce se stessa, e nella sua crisi identitaria perde contatto con il mondo: non è più fonte di ispirazione dei grandi valori dello Stato, non è più l’interlocutore privilegiato e credibile della comunità civile.

E’ per questa ragione che non bisogna sottovalutare, almeno non del tutto, la proposta di legge di Umberto Bossi sui dialetti, da molti ridotta ingenuamente o con mestiere a grado di polemica o boutade estiva (cfr. Ministro Sandro Bondi: “Derubricare le dichiarazioni di Umberto Bossi a chiacchiere estive”). L’introduzione allo studio dei dialetti, lo scredito gettato sulla lingua italiana ed il disconoscimento dell’inno nazionale sono la legittimazione agli interessi particolari delle minoranze di  opporre un diritto prevalente, in quanto diritto personale ed assoluto, sugli interessi comuni. Per fare questo si contrappone il dialetto, espressione di una minoranza,  alla lingua di tutti, in quanto emblema di valori comuni e di un diritto pubblico condiviso.

E’ la vecchia e nota contrapposizione, per dirla in modo semplificato, fra l’ideologia del pubblico e del privato. La lotta sotterranea che si sta giocando in questi giorni, nel nome della lingua nazionale e del nostro inno, è culturalmente decisiva. La grande faida aperta in Italia, e da tempo nel resto del mondo, è per la prevalenza degli interessi pubblici o privati, per un diritto individuale o per il bene comune, dalla parte dei beni disponibili o indisponibili, per la legge dei diritti o dei doveri, in sostanza per un modello di società etica e tollerante sul tipo del Welfare Society o per l’imperio del materialismo e dell’egoismo personale. Si tratta di quei principi di diritto universale, che traslati nella vita civile, consentono un dialogo ancora possibile fra l’uomo e la storia.

Non a caso la polemica sulla lingua registra, in una coincidenza non casuale ma perfettamente consequenziale, un duro scontro fra Bossi e la Chiesa, benché di tenore apparentemente diverso (cfr. 22 agosto 2009, stampa nazionale: Bossi definisce le parole del Vaticano sul problema dell’immigrazione “parole con poco senso. Che le porte le apra il Vaticano, che ha il reato di immigrazione; che dia lui il buon esempio”). Si tenga, infatti, presente che il sistema di valori a cui attinge Umberto Bossi, anche in questa inedita “battaglia” sui dialetti, è in pieno contrasto con le radici cristiano-cattoliche della nostra Carta costituzionale.

Esiste, infatti, una continuità dialettica fra pensiero sociale della Chiesa (DSC, “Dottrina Sociale della Chiesa”) e principi fondamentali della Costituzione, sin dal “Codice di Camaldoli” grazie ai contributi apportati dal così detto “mondo cattolico” fino all’avvento dell’ Assemblea Costituente (Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Aldo Moro, Amintore Fanfani). Stiamo parlando di quei fondamenti che garantiscono la sussistenza del concetto democratico.

La vera disputa, non è, dunque, se vogliamo i dialetti o l’inno di Mameli ma se preferiamo uno Stato di diritto ad un anti-stato. La teorizzazione dell’anti-stato bossiano passa, infatti, per il regionalismo esasperato, per il respingimento del diverso, la negazione di una lingua nazionale e dell’inno italiano. Se avevamo qualche dubbio sulla necessità di una identità culturale e linguistica nazionale abbiamo trovato, una volta in più, una valida ragione di orgoglio (cfr. Griorgio Gaber, “Io non mi sento italiano”: “qui mi incazzo son fiero e me ne vanto”). L’unico imbarazzo residuo nel sentirci italiani, noi come Giorgio Gaber, lo avvertiamo non sapendo ancora con chiarezza “questa nostra Patria cosa sia” e temendo, visti i chiari di luna, che essa possa divenire, sempre di più, “una brutta poesia” (cfr. Giorgio Gaber, “Io non mi sento italiano”).

 

Mattia Leombruno è fondatore e direttore del premio Mario Luzi. Ideatore del Festival della Lingua Italiana e dell’Alfabetizzazione.

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