L’idea di trasformare grandi istituzioni culturali in fondazioni, come annunciato dal Ministro Bondi per l’area archeologica di Pompei, trova la mia approvazione.
Ritengo infatti che la fondazione abbia un modello giuridico e amministrativo più efficiente di un Polo speciale e soprattutto possa essere più incisiva nel coinvolgimento strutturato delle imprese. Se quest’ultime, infatti, devono migrare da una logica di sponsorizzazioni (e quindi di finanziamento) delle attività di terzi, verso la piena integrazione sociale e l’investimento in cultura per poter pretendere sviluppo e risultati concreti e tangibili, allora devono anche poter essere partecipi della progettualità e del controllo di gestione.
La fondazione è l’organo ideale. Una ricerca Doxa-Fondazione CittàItalia del 2003 evidenziava che la metà degli intervistati la riteneva il soggetto giuridico più appropriato per la gestione del patrimonio culturale grazie alle sue capacità di fundraising. L’81% vi vedeva un importante ruolo per le imprese commerciali, così come il 37% si diceva disponibile a contribuirvi con le donazioni. In una prospettiva anglosassone, la fondazione può diventare anche un trust dove le imprese cofondatrici, nel tutelare i loro legittimi interessi,  possano arginare l’eccessiva intromissione della politica, che di solito non va d’accordo con efficienza, obiettivi e controllo dei costi. Parlo naturalmente di vere fondazioni, con quote non simboliche di imprese commerciali e non con le aziende partecipate pubbliche di facciata. Che si faccia tesoro dell’esperienza degli ex enti lirici.
Fabio Severino è vicepresidente dell’Associazione per l’Economia della Cultura