Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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A sedici anni abbondanti dall’introduzione della legge Ronchey il classico colpo di penna all’italiana (una norma sui musei inserita all’ultimo momento nel decreto sulla lirica) produce uno smottamento che non piace quasi a nessuno. Dal global service, integrazione di servizi da fornire in concessione presso i musei, si passa allo “spezzatino” che implica una ripartizione tematica dei servizi stessi: un’impresa fornirà la ristorazione, un’altra libri, cataloghi e audiovisivi, un’altra ancora i servizi logistici come l’accoglienza e la bigliettazione. Corretto? Teoricamente l’uno e l’altro sistema presentano pro e contro. Il limite più vistoso della legge Ronchey e delle sue applicazioni che si sono succedute risiede su un presupposto fragile: che il pubblico non sia in grado di fornire servizi di qualità, e che il privato garantisca l’efficienza, o quanto meno l’efficacia. Con l’effetto bizzarro che gli storici dell’arte dei musei fanno i custodi e i giovani laureati raccontano a memoria il testo della visita guidata su opere che non hanno avuto ancora il tempo di approfondire. Se fossimo su Marte, sarebbe abbastanza consequenziale dividere i servizi museali in fungibili (custodia, pulizia, bigliettazione) affidandoli ai privati in cottimo, grazie alla loro facile misurabilità; e infungibili (visite guidate, gestione del bookshop, laboratori) lasciandoli fornire dalle risorse interne dei musei opportunamente motivate. Che cosa si oppone all’uso di questa logica elementare? Un maligno potrebbe elencare il tappo sindacale, la frustrazione di lungo corso dei dipendenti, la scarsa attitudine manageriale dei direttori, la visione semplicistica e binaria del Ministero, il patto non scritto di assegnazione territoriale delle gare. Ma andrebbe all’inferno. Siamo soltanto sfortunati.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto, Università di Catanzaro