Apparsa e subito scomparsa dall’indolente stampa estiva, la notizia della disputa tra Stato e Comune di Firenze in merito alla proprietà del David di Michelangelo va vista come il sintomo più che preoccupante di un vuoto istituzionale e dei suoi pericoli. Il dilemma è tipicamente italiano: vecchi documenti attribuiscono la proprietà della scultura alla Città di Firenze, incontestabilmente; il passaggio di poteri e attribuzioni – non necessariamente chiaro – conseguente all’Unificazione del Regno d’Italia indica nello Stato il legittimo proprietario dello stesso manufatto. Di qui liti e carte da bollo, a plasmare una controversia stimolante per gli studiosi, ma quanto mai nefasta per il governo della cultura. E’ l’ennesima puntata di una divisione che sembra consensuale e invece alimenta conflitti e recriminazioni. Era sembrato tutto facile: la tutela allo Stato, la gestione alle Regioni; poi si era voluta calcare la mano: poche istituzioni di rilevanza nazionale, il resto alle Regioni; non erano mancati i pentimenti, come la creazione di una Direzione Generale per la Valorizzazione in un percorso che sembrava virare decisamente verso l’opzione regionale. Ma si trattava di beni da sbolognare, quei beni culturali che tanto piacciono ai cronisti d’agosto, carichi di custodi assenti, portoni chiusi, costi elevati e nessun visitatore. Niente a che fare con il David, che genera flussi più che rispettabili di denaro. Quindi, in barba a tutti i proclami, scatta la compulsione: “E’ mio! E’ mio!”. Così tutto si riduce alla pretesa di tenere i cordoni della cassa. Chi litigherà mai per i musei civici, per le opere minori, per gli artisti locali? Chi si occuperà mai di responsabilità gestionali e di costi? Qualcuno avverta il Ministro che è già tardi, e senza una strategia di sistema si finisce al collasso. Magari ricordandogli, con la saggezza degli Antichi Romani, che “cujus commoda, ejus incommoda”.

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro