Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Da quando gli economisti si occupano di cultura c’è una nicchia della loro discussione dedicata al dilemma se l’arte debba essere messa gratuitamente a disposizione di tutti o debba al contrario dichiarare il proprio valore sia materialmente sia simbolicamente con un sistema di prezzi adeguato, anche rispetto agli altri valori di mercato. La discussione, va detto, è piuttosto contenuta, e naturalmente non manca di ragionamenti alati: l’arte è un bene come gli altri, quindi abbassando il prezzo si allarga la domanda; l’arte è un bene a domanda rigida, quindi il prezzo va alzato il più possibile per accrescere il ricavo; l’arte non va sprecata, quindi meglio riservarla a pochi che ne comprendono il valore, e così via.
Ma a questa discussione manca del tutto un elemento di fondo: la percezione del consumo culturale come processo e non come azione isolata nel tempo e nell’esperienza del singolo individuo. Che il prezzo sia alto o basso, o meglio che aumenti o diminuisca, finisce per significare ben poco, se per il resto l’offerta culturale si preserva statica e ieratica, e se l’accesso è affidato al buon gusto e alla curiosità dell’individuo anziché all’attivazione e al mantenimento di meccanismi istituzionali efficaci. Con buona pace del marketing a buon mercato che spesso assiste iniziative che avrebbero comunque successo, e che taglia e incolla, con una certa compiaciuta ignoranza, procedure e strumenti del marketing manifatturieri degli anni Settanta.
Insomma, serve o no offrire l’arte gratis? Prima di argomentare, guardiamo la mappa. In Italia una buona metà dei musei pubblici consente l’accesso gratuito, e una percentuale elevatissima di quelli a pagamento richiede un prezzo a dir poco ridicolo. Il prezzo non è certo un deterrente. Inoltre, come Mark Blaug aveva segnalato già nel 1976 in un articolo incomprensibilmente ignorato dalla vulgata economico-culturale, il prezzo ha un senso se confrontato con i gusti individuali: per assistere al “Don Giovanni” sono disposto a pagare qualsiasi prezzo, per essere forzato a sorbettarmi “L’amico Fritz” dovrebbero pagarmi un indennizzo. Opinioni soggettive di chi scrive, ovviamente. Proprio come quelle di tutti i consumatori culturali.
La proposta di rendere i musei gratuiti, prima che la cosa si infarcisse di notti bianche, martedì della bellezza e venerdì della contemplazione, è stata seriamente avanzata da Walter Santagata in una serie di scritti e in un bell’articolo pubblicato dal Giornale dell’Arte. L’argomento è serio: arte gratis. La cosa non comporta una gran perdita per le organizzazioni, dal momento che gli incassi del botteghino coprono una quota negligibile delle loro entrate complessive. E che comunque pur registrando maggiori introiti non se li vedono automaticamente riaccreditati. Ma la gratuità da sola non può bastare. E’ indispensabile attivare un processo di attrazione e di sistematizzazione della fruizione culturale, un processo che combini con efficacia componenti emotive, ludiche e cognitive, consentendo l’incremento progressivo del valore culturale posseduto da ciascun individuo. Se crediamo che sia valida la teoria di Stigler e Becker sull’addiction culturale, teoria molto citata ma per nulla applicata.
Va benissimo la gratuità, dunque, purché punta dell’iceberg di un processo meno eclatante ma più sostanziale di consuetudine culturale, processo che a tutt’oggi manca del tutto.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro