Il recente articolo di Carlo Alberto Bucci su Repubblica in cui si segnala la situazione creatasi con le recenti assunzioni di personale di custodia del Mibac, nelle quali si ha un’alta percentuale di laureati, per lo più in materie attinenti il patrimonio culturale, richiama giustamente l’attenzione su un problema rilevante, ma che va necessariamente inserito in un contesto di cui nell’articolo vengono delineati solo alcuni elementi .
Quello dei “custodi laureati” non è un fenomeno nuovo per il Ministero, se già nell’ormai lontano 1996 in III e IV Qualifica Professionale, i laureati erano 402, pari al 3,3% degli impiegati in queste qualifiche, nelle quali i coloro che erano comunque in possesso di un titolo di studio superiore a quello richiesto (scuola dell’obbligo) erano il 38% del totale (Notiziario Mibac, n.54-55, maggio-dicembre 1997, tabelle 1 e 2, p.31). Tra costoro era compreso anche il sottoscritto, che ha atteso oltre ventitre anni per poter approfittare del “prossimo concorso interno” (come si dice nell’articolo) per l’auspicato passaggio di ruolo.

Il fenomeno è esemplare della condizione in cui versano le professioni intellettuali non riconosciute nel nostro paese e della sprovveduta politica di incremento dei corsi di studio pertinenti il patrimonio culturale, portata avanti negli ultimi trent’anni. Il Ministero, da parte sua, stretto nei vincoli imposti dalle rigide regole di contenimento della spesa pubblica e dalle procedure di selezione del personale dettate dal Ministero della Funzione Pubblica, negli ultimi anni ha giustamente e meritatamente approfittato di tutte le finestre, meglio dire i pertugi aperti in tali vincoli per reclutarne di nuovo o riqualificare il personale in servizio (vero valore aggiunto nella produzione e offerta culturali). In tale contesto l’assunzione di “custodi (prevalentemente) laureati” non è che la cartina di tornasole di un sistema di politiche dissennate pertinenti la cultura nel nostro paese, in cui, da un lato si evocano continuamente e impropriamente, a partire dal 1985, i suoi “giacimenti culturali” e, dall’altro, non si progettano e mettono in opera i necessari programmi coerenti di investimento e di organizzazione del settore. Per esperienza vissuta ritengo che prestare servizio come custode in un museo possa essere tra le esperienze più formative per un laureato in beni culturali, ma tale condizione può essere sostenuta solo se ciò viene sentito come un primo gradino di una reale progressione di carriera, all’interno di un meccanismo virtuoso di acquisizione di competenze, da spendere successivamente nell’assunzione delle responsabilità proprie della figura professionale di riferimento.
E tale figura dovrebbe essere inserita all’interno di un sistema in cui le strutture culturali pubbliche siano effettivamente messe in grado di competere con le omologhe straniere, sempre evocate come modello, mettendo insieme in tal modo i carciofi con le mele. In questo senso l’auspicata scelta di autonomia dei musei dovrebbe contemperare: il loro imprescindibile legame con le Soprintendenze e i territori di riferimento, la valorizzazione delle risorse umane interne ed esterne all’amministrazione pubblica, la loro funzione di centri “ricreativi” e pedagogici per la popolazione circostante, un equilibrato rapporto con gli operatori economici del turismo, della ristorazione e della ricettività… insomma un modello unico al mondo di cui dovremmo essere orgogliosi, invece di andare e cercare improponibili riferimenti all’estero.

Per fare questo, però, è necessaria una consapevolezza e un atteggiamento di buona volontà condivisi da tutti i soggetti in gioco: istituzioni, amministrazioni pubbliche centrali e locali, sindacati, università e sistema della formazione professionale, mondo delle imprese che, dialogando, riescono a costruire il modello evocato. Nel sistema attuale infatti, i custodi-laureati rappresentano solo un’anomalia generata dalle gravi patologie di cui tutti hanno colpa, ma nessuno sembra avere mai responsabilità diretta (l’accountability, spesso evocata anche negli studi di management culturale), ma sarebbe bello se potesse costituire in futuro un passaggio obbligato del modello formativo italiano delle professioni museali per il terzo millennio.

Emilio Cabasino è docente di Economia della cultura all’ Università della Tuscia e Comitato Scientifico Tafter Journal