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Salvato da una campanella benevola ma non proprio accettabile con la chiusura dei lavori della Camera fino al prossimo 14 dicembre, Sandro Bondi condividerà dunque il destino dell’intera compagine governativa. Molti lo ritengono il peggior ministro della cultura della storia repubblicana, dimenticando i Facchiano e le Bono Parrino che sedevano al Collegio Romano per una distribuzione di posti che considerava la cultura lo strapuntino del governo. E senza voler fare polemiche potremmo comunque domandarci se i suoi predecessori di ogni partito e schieramento siano da ricordare con qualche nostalgia. Non si tratta di individuare i colpevoli, ma certamente è già tardi per mettere a fuoco le colpe e soprattutto per indicare le possibili vie di un ridisegno.
Di quello che è stato fatto finora molto poco funziona, soprattutto se pensiamo all’assetto istituzionale della cultura. Crolli a Pompei, commissariamenti delle fondazioni liriche, teatri in affanno, musei vuoti a fronte della spremitura degli eventi blockbuster non possono essere considerati dei fatti straordinari e sfortunati, mostrandosi invece in tutta la loro gravità come il risultato di una gestione politica miope e bizantina, formalista e accondiscendente, ambigua e censoria di tutto il sistema culturale. D’altra parte si deve osservare che gli stessi addetti ai lavori, in una polemica caratterizzata da concitazione crescente e da toni apocalittici, stanno riducendo tutto alla questione dimensionale, come se ripristinare i livelli di spesa di molti anni fa potesse rappresentare un modo serio di gestire le risorse culturali.
Un sistema malato non si cura certamente dandogli medicine sbagliate: dare più soldi con meccanismi a dir poco obsoleti può solo aggravare la cronicità della crisi. Per fare qualche esempio: i musei e i siti archeologici non hanno alcuna autonomia organizzativa, progettuale e finanziaria, e ricevono i fondi annuali indipendentemente dalle cose fatte (bene o male); i teatri sono giudicati, quanto meno sul piano formale, da commissioni di esperti che finiscono per svolgere una funzione censoria (mi piace, quindi lo finanzio) che in un mondo normale sarebbe rigettata con sdegno; il Ministero è organizzato tuttora in modo obsoleto impedendo di fatto una lettura integrale del sistema culturale italiano; le relazioni con i privati sono caratterizzate da molti patti non scritti e da una totale mancanza di logica (basterebbe separare le attività fungibili da quelle infungibili e “muovere” le risorse umane pubbliche che invece sono irrigidite dalle convenienze sindacali); si riforma parzialmente l’università e si continua a ignorare la fragilità della formazione artistica, musicale e teatrale.
Colpe remote, come si vede, e forti interessi condivisi a coagularne l’effetto perverso. Ma Sandro Bondi una cosa avrebbe potuto farla, in tempi di crisi finanziaria e di solida maggioranza (sembrava così, all’inizio): modificare radicalmente le regole, inserendo autonomia e responsabilità, incentivi e sanzioni, strategie e progetti. Dopo una catena di ministri romanzieri e tecnici, filosofi e poeti, ne potrebbe bastare uno dotato di logica elementare.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro