L’ultima volta che il Maestro Baremboim ha citato pubblicamente il dettato di una carta costituzionale, prima dell’altra sera a Milano, è stato alla Knesset, per ricordare allo stato israeliano i suoi doveri di tolleranza etnica e religiosa poco dopo il concerto di Ramallah.
L’ammonimento suona con durezza e deve essere interpretato. Beppe Severgnini, sul Corriere di oggi, lo comprende prevalentemente come il segnale che l’Italia sta perdendo reputazione sulla scena internazionale. L’intervento seguente, sempre sul Corriere, coerentemente, ricorda la necessità che le èlites globali si facciano carico dei tesori mondiali, tra cui ovviamente quelli italiani. L’idea è buona e condivisibile, pur sapendo che sarà molto complesso applicarla. Il fatto è che forse è necessario affiancare a queste idee anche una chiave diversa di lettura.
Ciò che viene suggerito è che lo Stato non può disinteressarsi della cultura, la deve mettere al centro di un pensiero e di una attenzione strategica, la quale deve inoltre trovare nuove vie per declinarsi in pratica. Fare cioè politica culturale (sapendo che essa è diversa dalla politica economica).
Oggi è davvero necessario un cambiamento, se non altro perché la drammatica riduzione delle risorse pubbliche non è un fatto episodico, ma il segnale di un tempo nuovo, in cui sarà  necessario delineare i tratti di un modo e un mondo del patrimonio che ancora non ci sono e che non è semplicissimo inventare.
In un  certo senso, si potrebbe affermare che si tratta di una bella condizione, quella nostra odierna, in cui, finalmente, si deve cambiare. Il fatto è che non si sa bene come. Anzi, si percepisce che il dibattito sul “come” sembra per lo più inconsapevole della necessità di imparare dagli errori passati e, purtroppo, prigioniero di parole d’ordine parecchio consunte.  Tra queste molte riguardano il rapporto pubblico-privato. La distinzione dei ruoli, a suo tempo impostata con la Ronchey, che prevede di assegnare al pubblico le funzioni di tutela e al privato quelle di valorizzazione è inadeguata nelle sue fondamenta, non solo  per gli ovvi motivi logici che si sono più volte citati (non ha senso dividere tutela da valorizzazione), ma anche per i risultati funzionali che ha determinato nei primi quindici anni di sperimentazione, sia sul piano delle infrastrutture create, sia sul piano dei flussi economici che delle competenze. Il settore pubblico ha disimparato a relazionarsi con il pubblico, le ragioni della tutela sono progressivamente meno comunicate, i bookshop sono periferici e piccoli, i giri di affari, a parte alcuni grandi plessi sono largamente insoddisfacenti.
Questa impostazione non rende giustizia alla storia che, soprattutto in Italia, ha visto un  sostanziale ruolo svolto dai privati nel campo della tutela e della conservazione (di collezioni, parchi, ville, castelli), un ruolo rilanciato in modo esemplare da istituzioni come il FAI o l’Associazione Dimore Storiche. Né rende giustizia di ottime pratiche, rivolte al futuro, come  quelle prodotte dai privati americani di Packard nella conservazione e infrastrutturazione del sito ministeriale di Ercolano, che racconta la storia di un’efficiente prospettiva “charity” e potrebbe aprire una via per possibili emuli. Ancora, sempre su queste linee, la recentissima iniziativa di Ibm per legare innovazione tecnologica e patrimonio culturale all’Aquila.
Insomma, in modo un po’ paradossale, ma solo in apparenza, la riscoperta della politica culturale da parte dello stato implica credo la messa in atto di incentivi per aiutare le imprese a scoprire o riscoprire  il valore strutturale e necessario della cultura, la possibilità di innovare attraverso la cultura.  Su questo si realizza la grande scommessa: esiste un mondo privato da riscoprire, cruciale per la sopravvivenza competitiva delle imprese stesse e per il rilancio di un possibile umanesimo civile nel nostro paese.

Stefano Baia Curioni è vicepresidente Centro di Ricerca ASK dell’Università Bocconi di Milano