Gli ultimi drammatici avvenimenti che hanno coinvolto il nostro patrimonio artistico dall’inestimabile perdita della città dell’Aquila ai crolli della Domus Aurea e delle Domus di Pompei, hanno portato prepotentemente alla ribalta le difficoltà progettuali e gestionali che affliggono le Istituzioni preposte alla tutela.
Il depotenziamento delle Soprintendenze con il blocco delle assunzioni e i finanziamenti quasi azzerati, non permettono più loro di svolgere con efficacia un’attività sul territorio che dovrebbe privilegiare in primis la fase di “prevenzione” e quella di “manutenzione”. Per gli interventi conservativi ormai drasticamente ridotti, si fa generalmente ricorso alla prassi semplificata dell’affidamento congiunto, cioè “chiavi in mano” a grosse imprese edili. In questo modo si ha un unico referente, l’edile, che subappalta alle ditte specializzate in restauro. Le opere d’arte sono così declassate, quando va bene, a una “appendice”, a fanalino di coda di una lunga catena di subappalti. Per arrivare, al limite estremo, agli affidamenti nelle aree archeologiche per le quali si ritiene che le superfici non mostrando molte volte segni di decorazione, possano essere campo di intervento ad opera delle ditte edili. La legge recita, infatti, che l’ambito specialistico riservato ai restauratori riguarda “i lavori concernenti beni mobili e superfici decorate di beni architettonici…”. Ecco così chiarito il contenzioso sul Colosseo che come a tutti è noto, non è decorato, quindi può essere oggetto dell’attenzione di altri, il personale edile non specializzato.
E allora ci si chiede perché tentare di “normare” con un decreto del 30 marzo 2009, la qualifica dei restauratori istituendo un concorso finalizzato alla creazione di un elenco ufficiale?
Perché inseguire l’alta formazione del restauratore ormai riconosciuta a livello universitario dal DL 87/2009, quando è poi negata dal mondo del lavoro?
Questi i problemi ancora irrisolti che il restauratore dovrà affrontare nel 2011, problemi che non dipendono dalla decurtazione dei fondi, o almeno solo in parte, ma da una logica consumistica che nel tempo ha favorito e sponsorizzato una politica economica che non riesce a vedere il restauro come conoscenza e acquisizione di coscienza dell’appartenere. Tantomeno, ed è grave, ha la capacità di individuare nel restauro una fonte di generazione di valore per il settore dell’industria creativa, per il turismo, in particolare quello culturale, e per l’economia italiana nel suo complesso. Da una società che dovrebbe sentirsi parte di una memoria collettiva nella quale riconoscersi per fare “squadra” e avviare la ri-costruzione di ciò che è danneggiato, si spera, non irreversibilmente.
                    
Lidia Rissotto è Funzionario Restauratore Storico dell’Arte ISCR e Direttore della Scuola di Alta Formazione e Studio del Centro di Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”