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Erano molti decenni prima dei writers, e già si scriveva “Viva Verdi” sui muri di molte città: significava “Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia” ma gli occupanti asburgici ci cascavano pensando che si trattasse di fanatismo melomane; la coppa Rimet non era stata ancora inventata ma i tedeschi (Wagner incluso) erano ufficialmente nemici; e mentre i rumori di battaglia percorrevano la penisola molti si preparavano a schierarsi con il vincitore, pur senza sapere chi sarebbe stato. Moltissimi giovani ci rimisero, generosamente ed eroicamente, la vita in battaglia: il romanticismo nostrano, debole in musica, in letteratura e nell’arte, offriva solo la sponda militare. L’aveva capito benissimo Cavour reclutando il biondo Garibaldi per aprire nel Centro-Sud il mercato di sbocco del capitalismo manifatturiero padano: meglio armare un piroscafo per il sud che caricare un convoglio capace di attraversare le Alpi.
Restava solo il gesto simbolico e definitivo. Riprendere la Città più bella del mondo dalle grinfie papaline. E’ di quell’anno che oggi celebriamo il centocinquantesimo anniversario, eseguendo un’opera di Verdi che racconta del popolo ebraico, litigando sull’opportunità di lavorare o festeggiare, distraendoci (forse) dalla crescente impresentabilità della classe politica, della società civile, della Nazione, delle stesse istituzioni. Con alcune minoranze virtuose (Quirinale, Banca d’Italia, designer, stilisti, insegnanti,fisici nucleari, etc.) sempre più solitarie in un ecosistema infertile. E’ finita? No, per niente. Ma è indispensabile fare una piroetta di 180 gradi, e finalmente guardare al futuro senza presunzione e dimenticando i soliti, consunti luoghi comuni: lo stellone, la furbizia, la cucina, la mamma, e magari anche eliminandone altri: mafia, camorra, corruzione. Dal 1861 siamo rimasti come ci etichettava Franz Josef, “briganti suonatori di mandolino”.
L’abbiamo immaginata con tanta passione, ma dopo un secolo e mezzo è il caso di praticarla; solo così riusciremo a darle forma, struttura, valori, mappa, comunità viva e attiva. Cantiamo l’Inno di Mameli e Novaro anche quando lo sport è fermo; curiosiamo con rispetto ed entusiasmo tra le bellezze di altre città; rendiamoci conto che chiunque sia nato qui è italiano; piantiamo il nostro orto biologico in città; scambiamo idee senza mostrare i muscoli; e magari leggiamoci un po’ di storia. Ci aiuterebbe a capire chi siamo.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro