La classifica annuale degli ingressi internazionali alle strutture museali reitera una chiara sentenza per il nostro Paese, evidenziando le potenzialità inespresse del patrimonio culturale nazionale, sotto il profilo economico, ma soprattutto sociale.
Quali le ragioni che ci impediscono di scalare le classifiche internazionali dei musei più visitati?
La crisi non ha colpito la sete di cultura. Nel 2011 i visitatori dei nostri musei sono cresciuti di oltre il 7% sfiorando i 40milioni con diretto effetto sui ricavi da servizi e biglietteria. Il record va al polo di Venezia con 7,9 milioni, più 78% sull’anno precedente.

Invero le nostre città d’arte sono i maggiori concorrenti di mostre e musei. Il paese è poi un museo diffuso per non dire polverizzato: 4.739 è il numero di spazi fornito di Federculture, alcuni dormienti e molti, anche oggi nonostante la crisi, in apertura.

Grande è la strada da compiere sul piano dell’orientamento delle politiche culturali, sia nazionali, che integrate a livello territoriale e di singola realtà. Pochi musei sono oggi gestiti con una visione imprenditoriale e adottano strategie di marketing; convergenze operative necessarie ad attrarre e coinvolgere i diversi pubblici, nonché i partner.

Tutto da scoprire è il turismo congressuale che fa i grandi numeri. Ma come intercettarlo se occorre una programmazione almeno triennale, che le istituzioni nostrane non immaginano, strette come sono dalle morse del budget? Sono forse elementi questi sufficienti a spiegare le differenze dei grandi numeri e leggere le opportunità sulle quali lavorare soprattutto in ottica di politiche e sulle quali si eserciterà Pier Luigi Celli, neonominato ai vertici di ENIT.

Ma oggi farei partire la riflessione sul fronte del pubblico delle nostre comunità.
La partecipazione culturale attiva fa bene alla salute come acclara, con il well being index, una recente ricerca IULM per Bracco: riduce tra le altre il rischio di patologie cardiache, i tempi di ospedalizzazione. Un risultato che potrebbe avere un impatto potenzialmente straordinario sul welfare.
Dalla consultazione CNEL dello scorso febbraio sulla qualità del “Benessere equo sostenibile” (BES) che ha interessato 45mila individui, emerge che circa il 78% indica l’arte come fattore da presidiare su un set a dodici dimensioni.
Ma dal recente anticipo nella prima edizione di Art & Tourism a Firenze dei risultati di una nuova indagine di Civita sui consumi culturali in Italia (pubblico sia italiano che straniero) di prossima pubblicazione, emergono diverse categorie comportamentali (i visitatori “mobili”, i “sedentari”, gli “onnivori”, i “compulsivi”) da stimolare, ma soprattutto un folto “non pubblico”.
Nel 2010, sei italiani maggiorenni su dieci non hanno visitato musei, mostre, aree archeologiche. Non si tratta solo della fascia più anziana della popolazione (ultra 64enni), ma in quella adulta “produttiva” tra i 25 e i 44 anni. Un fenomeno rilevato, in particolar modo, tra le donne (meno del 40% va alle mostre), territorialmente più marcato nel Sud e, sorpresa, nel Nord Ovest. Gioca senz’altro lo spazio contenuto riservato all’arte nell’istruzione, in totale controtendenza rispetto agli altri Paesi europei e non solo. Uno per tutti la Francia, con l’introduzione della storia dell’arte ad ogni livello scolastico, grazie a Mitterand.
Le spiegazioni si ritrovano solo parzialmente nella distribuzione territoriale delle offerte culturali. I più giovani sono “distratti” da altri interessi e dichiarano di annoiarsi visitando una mostra o, come i “tecnologici”, trovano inadeguata la comunicazione. Gli “insoddisfatti” sono i più anziani, che rivendicano servizi maggiori.
Prima di contarlo, chiediamoci: quanto conta il pubblico? Oggi più che mai i musei, a prescindere dal loro “contenuto”, debbono fare i conti con un ruolo di piattaforma sociale. Sono capaci di rispondere a bisogni reali, e non auto-referenziali, di reinventarsi con competenze strategiche ed operative per rispondere alle sfide del contesto? Il pubblico è la ragione d’essere, il cliente, realmente centrale e non un incomodo che arriva dopo la programmazione? Come comunicano? La funzione educativa che pare non essere più ancillare è un “buttadentro” di scolaresche per le classifiche e per i finanziamenti o è un elemento biologicamente attivo nella programmazione culturale? Interviene realmente a monte del processo e non il giorno antecedente l’apertura della mostra?
La questione non riguarda fare proseliti per il pareggio del budget dei musei o per l’indotto turistico, per i numeri di una classifica. Un dato che si somma ad altri, come i risultati dei testi Invalsi-Ocse Pisa sulle competenze scolastiche dei giovani, e ci fa pensare che non visitano un museo forse non leggono, ci fa pensare alla loro “cittadinanza” nel presente e al futuro del Paese.
E’ vero, la cultura oggi è al centro del dibattito e si inizia a comprendere che e come sia strettamente correlata alle principali variabili macroeconomiche sulle quali si gioca la partita del futuro, nostra e di quella Europa 2020 –che ora si sente minacciata nei suoi elementi costitutivi-, ma sceglie di riposizionarsi sulla società della conoscenze con le industrie culturali creative.
Dopo aver firmato i Manifesti, scritto e discusso ora occorre far camminare la parola. Ognuno per il proprio “cono di potenza”. In attesa del ripensamento delle politiche pubbliche che non si vede all’orizzonte.

Catterina Seia si occupa di progetti di innovazione sociale a base culturale