Volendo riassumere in un unico concetto gli eventi che hanno animato la Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile, che si è tenuta a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno, si potrebbe mutuare il titolo di una famosa commedia Shakespeariana e dire che alla fine c’è stato solo “molto rumore per nulla”.

Lo spettacolo allestito a vent’anni di distanza dal famoso summit del 1992 ha messo in scena gli stessi attori e lo stesso canovaccio, senza prevedere nel frattempo un corso di aggiornamento al fine di garantire una performance migliore della precedente.

Ciò che traspare da questo incontro mondiale, che ha coinvolto 191 paesi ed è costato 150 milioni di dollari, è che la tutela dell’ambiente continua ad essere un argomento sussidiario, la cui reale trattazione appare sempre e comunque procrastinabile ad un momento successivo rispetto all’oggi.

Difficile sintetizzare meglio di George Monbiot la lezione emersa da Rio+20; il giornalista ha scritto sulle pagine di The Guardian che “la biosfera che i leader mondiali avevano promesso di proteggere si trova in uno stato di gran lunga peggiore rispetto a vent’anni fa. Non è il momento di riconoscere che hanno fallito? […] In quest’ottica la battaglia per proteggere la biosfera è la stessa battaglia che si combatte per la redistribuzione del reddito, per la protezione dei diritti dei lavoratori, per un governo efficiente, per l’uguaglianza […] Senza movimenti di massa, senza quel tipo di confronto necessario per rivitalizzare la democrazia, tutto ciò che ha un valore è cancellato dall’agenda politica. Ma noi non ci mobilitiamo; forse perché siamo irrimediabilmente sedotti dalla speranza”.

L’assenza dal summit di importanti premier e capi di Stato, tra i quali Barack Obama, Angela Merkel e David Cameron, segna un’ulteriore sconfitta delle tematiche legate all’ambiente e a modelli di crescita alternativi rispetto alle pratiche attualmente dominanti.

Come alcuni attenti e acuti osservatori della società contemporanea hanno affermato a proposito del dilagare della corruzione nelle pratiche di vita quotidiana, sostenendo che il problema da affrontare fosse soprattutto un problema culturale, anche per le questioni inerenti alla salvaguardia del nostro pianeta le criticità da superare hanno, in primo luogo, una matrice di tipo culturale.

Anche se è difficile da accettare, non abbiamo una seconda possibilità per salvare il nostro pianeta; tutti gli interventi possibili sono fuori tempo massimo e l’unica modalità di intervento ancora ammessa è provare a rimandare di qualche secolo, o magari millennio, il momento in cui la Terra collasserà, schiacciata dal peso dell’uomo. Temo che senza un cambio di paradigma – che deve riguardare tanto le tecniche di produzione quanto il sistema culturale in cui viviamo – tale momento rischia di essere pericolosamente vicino.

Vittoria Azzarita è caporedattrice di Tafter Journal