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Grande Brera: Fondazione si? Fondazione no? Di partecipazione per di più. Una questione veramente intricata ed intrigante, che potrebbe portare giuristi ed economisti della cultura a scrivere molte più parole di quante non ne verranno utilizzate qui.
Ma quale è il cuore della questione?
Da un lato c’è chi parteggia (Ministro Ornaghi in primis) per la creazione di un soggetto giuridico misto che raduni attorno a sé una potenza di fuoco così ampia da portare a compimento il progetto di restauro ed ampliamento della prestigiosa Pinacoteca milanese (progetto che il solo Ministero non avrebbe la capacità di sostenere); dall’altro c’è chi si oppone gridando allo scandalo e ipotizzando che la manovra – suffragata dalle parole di Ornaghi che ci tiene a sottolineare: “i soldi pubblici sono finiti” – non voglia far altro che spianare la strada per la privatizzazione illegittima del patrimonio culturale.
Dove sta la verità?
Nel mezzo, come sempre. Se da un lato, infatti, lo strumento della Fondazione di Partecipazione cui si sta pensando (modello Fondazione Museo Egizio di Torino, con il Ministero unico soggetto fondatore e che mantiene un ruolo di vigilanza) parrebbe palettare le possibili ingerenze del privato mantenendo le garanzie del controllo pubblico, dall’altro l’innovazione giuridica che si vorrebbe introdurre è dichiaratamente strumentale a reperire le risorse mancanti per la realizzazione del progetto Grande Brera, non accennando affatto alla possibile sperimentazione di un modello di governance territoriale che dia sostanza al termine “partecipazione”.
Che riflessione ci porta a fare?
Che forse quello di Brera è un “non problema”, o perlomeno un problema che una volta risolto non apre certamente la strada alla soluzione dei problemi strutturali vissuti dal patrimonio culturale italiano. Una volta superato lo sbarramento ideologico, per Brera non dovrebbe essere difficile raccogliere adesioni dai privati, istituzionali e meno (c’è già la disponibilità della Camera di Commercio e della Fondazione Cariplo), soprattutto in un momento in cui ci si avvia immanentemente verso l’EXPO2015.
Pensiamo se un progetto analogo dovesse essere immaginato altrove, in un contesto economico e sociale differente, magari al sud. Pensate che davanti al Ministero si creino code di privati con la 24ore piena di soldi da investire nella fondazione? Mi riesce difficile immaginarlo. Con questo voglio dire che ci vuole ancora un po’ di inventiva per trovare un modo più efficace di coinvolgere i privati nella gestione della maggior parte del patrimonio culturale italiano (quello meno noto e meno fortunato).
Le soluzioni ci sarebbero, ma ci vuole un po’ di coraggio. E che poi non si gridi allo scandalo!
Emiliano Diamanti è economista della cultura