Tutte le relazioni di fine anno prodotte da autorevoli soggetti come il CNEL o l’ISTAT o la Commissione per i diritti e l’eguaglianza di genere del Parlamento Europeo ci parlano di una condizione femminile di maggiore povertà e minore benessere delle donne rispetto agli uomini.
In questo panorama comunque non edificante della condizione femminile, ora il report del WEF posiziona l’Italia all’ottantesimo posto nella classifica mondiale.
La notizia si completa con un inciso: eravamo al settantaquattresimo posto.
Sappiamo che il nostro paese è coinvolto in una crisi finanziaria, tuttora irrisolta che sta minando le basi della stessa costruzione europea, con la specificità di una nuova recessione che si avvia a metà del 2012 e che condiziona il M.D.L, se pure in modo marginale, anche perché si evolve e si trasforma il sistema produttivo in modo strutturale.
In altre parole, assistiamo ad una stagnazione dell’occupazione maschile e ad una crescita di quella femminile, che però non genera un miglioramento della condizione della donna nell’ambito sociale, economico, istituzionale e politico; anzi, così come emerge dal rapporto del WEF, peggiora.
Infatti siamo di fronte al fenomeno della diminuzione degli “scoraggiati “ (quelli che non si iscrivevano più alle liste di disoccupazione) e che erano in maggiore misura donne, così come i contratti precari o a part-time involontario.
Se a questo si aggiunge la necessità di porre dei vincoli all’espansione della spesa pubblica, ambito nel quale avevamo una rilevante presenza femminile e l’invecchiamento della popolazione accompagnata da l’aumento dell’età pensionabile per le donne, si può ben capire perché la situazione delle italiane è peggiorata: infatti, con la diminuzione degli investimenti nel welfare, si trova schiacciata dall’impegno di cura sia verso i figli che verso i genitori anziani.
La domanda è però d’obbligo, a questo punto: come mai questo non succede negli altri paesi più o meno vicini a noi?
Io credo che la risposta sia nel perdurare nella nostra cultura politica e istituzionale di stereotipi di genere, che impediscono di fatto, al legislatore, o al politico, di fare quelle scelte di valorizzazione delle competenze femminili, ormai così presenti nella nostra società, che non riescono ad emergere e che permetterebbero sia alle donne, ma anche a tutta la società, di risalire la “classifica”.

Francesca Bagni Cipriani è consigliera di parità della Povincia di Roma