Alla cortese domanda del marchese, il cavaliere gonfiò il petto.
“Sto parlando di Uògner! Della sua musica da Dio! Del fantasma della sua musica che scanta tutti gli altri musicanti! Quella musica sulla quale tutti, oggi o domani, dovranno rompercisi le corna!”
“Questo Uògner mai lo intesi” disse sinceramente stupito Giosuè Zito. “Perché lei è omo d’ignoranza! Fra lei e la cultura di una triglia non c’è differenza! …”

La disputa, accesa e viscerale come si conviene alla società italiana dell’Ottocento, avveniva al Circolo Cittadino di Vigàta (lo testimonia “Il birraio di Preston” di Andrea Camilleri). Qualche anno dopo il compositore tedesco sarebbe approdato a Palermo dove nel soggiorno dorato dell’Hotel delle Palme avrebbe scritto il terzo atto dell’opera “Parsifal”. Per tutta l’Italia in piena temperie tardo-risorgimentale si trattava comunque di uno scomodo nemico del nostro Verdi, amato come musicista e usato come acronimo per invocare l’avvento dei Savoia.

Che in questi giorni, a ridosso della prima ambrosiana, si continui a far polemica sulla guerra tra Verdi e Wagner contestando la scelta di inaugurare la stagione scaligera con “Lohengrin”, fa una certa impressione. Vogliamo confidare che non sia il frutto di un’atmosfera germanofoba per via di spread e fiscal compact, ma soprattutto vorremmo che l’arte non fosse presa a pretesto per infantili contese muscolari.

La lirica italiana, vittima di un finanziamento pubblico in cui la qualità viene disinvolta-mente confusa con la scelta dei titoli che anche i burocrati devono poter riconoscere, è tuttora avvitata su poche opere di pochissimi autori (con alcune meravigliose eccezioni laddove i direttori artistici propongono opere nuove e aprono la finestra sul mondo). A furia di Traviate e Rigoletti stiamo dimenticando quanto esteso è l’orizzonte del teatro musicale.

Nell’anno del doppio centenario (sia verdiano sia wagneriano) una prima del compositore tedesco è una scelta da discutere? Sicuramente no. Il dato interessante è che la stagione che si apre il 7 dicembre prevede quasi trecento serate, indirizzando il Teatro alla Scala verso un modello europeo in cui la lirica si produce anziché conservarla sotto una teca. Che a ciascuno di noi piaccia di più un’opera o un musicista fa parte della sfera intima e per molti versi imprescrutabile.

Quanto più ampio ed ecumenico il cartellone dei nostri teatri d’opera tanto meglio per il pubblico e la società che potranno godersi un’arte tuttora magnifica nelle sue indefinite sfaccettature. A Berlino non fanno certo polemiche quando si mette in scena un’opera di Verdi.

 Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro