Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Dell’anno che sta per finire non c’è molto da ricordare. Purtroppo non c’è granché che possa valer la pena dimenticare. Ci siamo mai accorti dell’evanescenza di un ministro? O della palude in cui si dibatte la lirica? O delle occupazioni senza progetto? La cultura italiana continua a mantenersi in bilico tra istituzioni sotto la tenda a ossigeno e fermenti silenziosi che sfidano diffidenza e supponenza. Che cosa ci lascia il 2012? Poca roba, se mettiamo da parte le dispute tardo-feudali, i pettegolezzi sulle nomine, le mostre per turisti disorientati.
Le presunte eccellenze del Paese languiscono nelle teche del pregiudizio e non hanno più orgoglio: Pompei crolla a puntate e viene sistematicamente snobbata; Brera annaspa tra le etichette formali senza elaborare alcuna strategia; il MAXXI non ha ancora diritto alla I del ventunesimo secolo, e rimane un contenitore magnifico e amorfo di cose ormai classiche; molte fondazioni liriche sarebbero già tecnicamente fallite e galleggiano grazie ad artifici contabili; l’arte contemporanea viene creata e scambiata altrove; design e moda sono un tenero ricordo.
Del futuro rimane ben poco. Ci salva il vino che si è preso sul serio e si comporta da cosmopolita: nei prossimi anni il vitigno di brand sarà il Nerello Mascalese che sulla lava etnea forgia la propria unicità ma sa muoversi per le vie del mondo come i mercanti del Rinascimento. L’Expo 2015 rimane una gigantesca incognita e rischia l’epicfail per sicumera a buon mercato. Le capitali europee del 2019, una volta finita la rissa per il titolo, dovranno fare i conti con l’assenza di vera strategia, altro che smart cities.
E spiace che anche l’agenda Monti, sulla quale gli archeologi del quarto millennio cercheranno di capire che cos’era l’Italia degli anni Dieci, abbia deposto la cultura nello scaffale dell’ovvio: pubblico e privato, senza dire perché e come; turismo internazionale, come se non bastassero i danni già prodotti. Non una riga di conforto sull’impresa, sulla libertà d’azione, sulla leggerezza delle regole, sulla valutazione della performance gestionale, sulla facilitazione dell’accesso ai mercati, sulla fiscalità incentivante.
Ah, inutile dire che la società italiana è ben più avanti dei suoi esegeti: la domanda di cultura continua a crescere, la potenza cognitiva del web si innerva in una comunità sempre più multiculturale, la creatività informale vede la luce in ecosistemi ostili; emergono con forza idee sperimentali che sanno coniugare urgenze estetiche e acutezze gestionali (qualche esempio? il Teatro delle Albe, Virgilio Sieni, il laboratorio del San Carlo, alcuni musei civici capaci di dialogare con i visitatori).
Tanto a casa quanto oltre frontiera le nostre qualità si affermano e convincono, dall’arte digitale alla ricerca medica, dalla creatività alla fisica nucleare. Ma il sistema cultura fa acqua, più o meno come tutti i comparti del sistema Paese. Gli Italiani sono (ben) fatti. Prima o poi bisognerà pur fare l’Italia.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro