In marzo una Class Action sarebbe stata avviata contro il Metropolitan Museum of Fine Arts (MET) di New York da tre visitatori che, come del resto oltre il 40% di tutti gli oltre 5 milioni di fruitori annuali del MET, hanno pagato 25$.

Cosa di strano quindi? Secondo l’avvocato del terzetto, la somma venne pagata ritenendo la dovuta quale “Biglietto di Ingresso”, mentre si tratterebbe di una donazione di ammontare “raccomandato” o, come indicava il Museo fino a due anni fa, “suggerito”, attraverso le quali l’istituzione museale introita annualmente circa il 16% delle risorse occorrenti.

La causa viene quindi intentata sul presupposto che il Museo abbia indotto in errore i visitatori (e che in fondo, li abbia ingannati) anche attraverso una minore evidenza tipografica della parola donazione “raccomandata”: il pubblico riteneva dunque di dovere effettuare il pagamento e non quindi aderire ad una “proposta di donazione”.
Non sarebbe stata esposta con la chiarezza dovuta, secondo la tesi degli attori, la loro facoltà di controproporre una donazione di altro (minore) importo, apparendo invece come un dovere pagare la somma indicata, come fosse il prezzo di un biglietto.

Si costituisce in giudizio il Museo, difendendo la prassi perdurante da oltre 40 anni, e il fatto che la parola “raccomandata” (precedentemente “suggerita”), ben visibile, rende a tutti chiaro che non di obbligo, ma di facoltà si tratti.
Una causa per la refusione di 75$ dollari quindi? Non proprio. La tesi dell’“accusa” arriva a parametrare il “profitto ingiusto” percepito dal museo in tutti i pagamenti da 25$ ricevuti a mezzo carta di credito negli ultimi 5 anni. Si tratta, in buona sintesi, dello spauracchio di una “maxi-multa” che prende il nome di “danno punitivo”, figura questa presente nel sistema di common law, non invece nel nostro sistema giuridico.

Come non chiedersi, allora, se una tale situazione possa verificarsi anche in Italia?
Ebbene, ancorché nel 2010 sia stata introdotta la’“azione collettiva”, tramutatasi di recente in “azione di classe” nel codice dei consumatori, sembra escludersi che un evento simile troverebbe nel nostro Paese tutela con gli strumenti giuridici attuali. Senza considerare che sono poco più di 20 le azioni di classe di cui si ha notizia in Italia, molte delle quali non hanno ancora visto pronunciarsi la ordinanza di ammissibilità (la approvazione iniziale) da parte del Tribunale avanti cui pendono.

Anzitutto, l’articolo 180 bis del “Codice del Consumo”, non prevede certo “danni punitivi” ma, al limite, il risarcimento o rimborso della somma erroneamente erogata. Ed una finestra di tempo nel quale consentire a altre persone nella stessa condizione soggettiva di “aderire”, così integrando la “classe” ed affiancandosi alla domanda, sempre che abbia superato il vaglio iniziale di ammissibilità avanti al Tribunale.

La natura di donazione (di modico valore) del rapporto, impedirebbe, nel nostro ordinamento, la revoca, consentita solo per “indegnità” o per frode. E frode, nel nostro sistema, corrisponde ad illecito: reato. Mentre le categorie di “pubblicità ingannevole” risultano in Italia applicabili solo alla propaganda commerciale, non al settore delle donazioni.

Altro, e non indifferente motivo a discrimine, può essere la struttura di remunerazione dei legali proponenti l’azione di classe, pagati con il “success fee” (una percentuale sul risultato conseguito), metodo questo non ammesso nel nostro sistema deontologico, pur se riformato proprio nel corso dell’estate 2012.

 

Paolo Bergmann è avvocato esperto in diritto d’autore