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Il terremoto avviene il 5 giugno del 2013. Prima il Guardian e poi il Washington Post introducono il Datagate, ossia l’operazione di spionaggio digitale governativo più imponente della storia.
La talpa è un giovane tecnico di nome Edward Snowden, che si era preso la briga di rivelare al mondo intero l’esistenza di PRISM, una specie di collettore intelligente in grado di raccogliere flussi informativi da Social Network, società di telecomunicazioni, provider di posta elettronica e fornitori di contenuti. Una mole incredibile di documenti, immagini, abitudini e inclinazioni che sarebbero raccolte al solo scopo di effettuare quella che in gergo si chiama “Business Intelligence”, ossia la profilazione di elementi di rischio e la ricostruzione della rete di comunicazione che ruota attorno a questi ultimi.
L’obiettivo è presto detto, riassunto in una frase ormai celebre dell’autore Sun Tzu: “Conosci il tuo nemico”, che nel suo libro “L’Arte della Guerra” illustrava la necessità di raccogliere quante più informazioni possibili sugli avversari per capirne lo “stile” di combattimento e il modello reattivo, riuscendo cosi ad anticiparne le mosse nello scontro diretto.
Una novità? Direi di no. Che il mezzo Internet insieme alla produttività si porti appresso anche la tracciabilità e la dispersione dei dati lo sanno anche i telefilm ormai. Basta seguire la serie “Person of Interest” del 2011 per scoprire forti analogie che potrebbero anche non essere del tutto casuali. Qualsiasi azienda, utente o governo viene o può venire in possesso dei dati altrui, può archiviarli o arricchirli con altre informazioni volontariamente o involontariamente, e renderle interessanti per altri utilizzatori. Basti pensare alle miriadi di foto digitali taggate su Facebook, ai documenti che infiliamo su Dropbox o alla classica navigazione su siti di vario genere e colore.
Un problema di Privacy? Direi di no. Nonostante Snowden abbia denunciato un utilizzo deviato di PRISM da parte del Governo Americano, vale quello che diceva un mio amico tecnologo relativamente ai miei dubbi sull’uso di Dropbox e Skype: “Tanto non ho nulla da nascondere”. A nessuno di noi interessa la Privacy, o almeno a nessuno di noi interessa finché non se ne provano gli effetti direttamente sulla propria pelle. Ma anche se questo avviene, ho visto sempre dare la colpa al dipendente infedele o a intrusioni informatiche vicine al mitologico, mai al sistema di per sé o al suo utilizzo indiscriminato.
Eppure nel profondo del nostro cuore sappiamo che quei dati, in un modo o nell’altro, potrebbero farci male se qualcuno li capisse. Ci conforta il fatto che solo noi abbiamo la chiave di lettura, e probabilmente i nostri pensieri sono così poco interessanti che neanche un Grande Fratello di orwelliana memoria potrebbe cavarne qualcosa di importante. Forse.
E scoprire che tutte quelle battute maliziose in ufficio, quegli hacker movie su complotti più o meno internazionali e quelle stupidaggini annunciate dal solito specialista di sicurezza, sono reali e hanno anche un nome accattivante come PRISM, per un momento porta alla luce proprio quella paura atavica che teniamo sepolta , dimenticandoci però che siamo stati proprio noi a volere questo, gestendo incautamente un mezzo potente come quello di Internet.
Esiste una soluzione? Purtroppo no, o almeno non nella conformazione attuale del Web 2.0, che è basato su un modello di comunicazione liberalizzato, ma fondato su pochi centri di servizio globali come Google e Facebook. Mentre quindi tutti gli enti governativi del mondo, ad eccezione degli Stati Uniti, richiedono a gran voce una regolamentazione internazionale in materia, a noi rimane sempre il principio del buon senso: una volta consapevoli del rischio, governarlo con saggezza e sano discernimento, magari evitando di parlare di Obama su Skype…
Andrea Pompili è un informatico ex coordinatore del “Tiger Team” di Telecom