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Quando la redazione di Tafter si trova davanti a concetti di dubbia affidabilità semantica ricorre al conforto della Sociologia della Complessità. “Che ne dici, parliamo di digital disruption come in questi giorni fanno tutti? Ma poi perché dobbiamo farlo?”, mi dicono.
Dobbiamo farlo perché, esattamente come fu per la supercazzola prematurata, con la digital disruption ci troviamo di fronte a qualcuno che per scroccare inviti a convegni e relativi tramezzini ha ridefinito per la nennesima volta il semplice processo di collisione che avviene quando i consumatori guardano alle nuove tecnologie per semplificarsi la vita e imprese usano a loro volta le nuove tecnologie per offrire alle persone esperienze migliori.
Quelli degli anni ’90 avrebbero usato la parola innovazione, negli anni ’80 la metafora video killed the radio star, negli anni ’70 forse un roboante progresso. Jovanotti direbbe Siamo ragazzi fortunati perché c’hanno regalato un sogno, che suona molto meglio di digital disruption e sottintende la stessa acqua fresca.
I guru della disruption dicono che presto ci invidieremo da soli i modi migliori di rapportarci con le banche, di leggere anche sott’acqua, di guidare la macchina senza guidarla, di innamorarci a nostra insaputa, di vivere una vita servoassistita dove prendere le decisioni sarà un piacere. I processi, secondo loro, stanno trasformandosi così in fretta che vanno a collidere contro i vecchi metodi e le vecchie pratiche di business. “Le aziende che partecipano di questo cambiamento avranno successo, quelle che ne resteranno ai margini perderanno progressivamente rilevanza per i loro clienti”, dicono loro e il Grande Capo Estiquaatsi non avrebbe potuto dirlo meglio neppure con un calumet caricato a disruptive mushroom.
Con la forza della disruption l’energia e la voglia di cambiare delle persone si va a combinare con le infrastrutture che lavorano per immettere sul mercato prodotti e servizi sempre migliori. In passato ferrovie e autostrade hanno costituito un’infrastruttura che ha permesso, per esempio, ai produttori kiwi di riempircene le diete senza preavviso, cambiando così la tipologia dei prodotti che la gente poteva, e si aspettava, di comprare. Ma le infrastrutture fisiche sono costose e richiedono tempo per essere costruite, dunque il processo di disruption è stato storicamente lento.
Oggi invece, con la digital disruption, le infrastrutture digitali che i signori di Apple, Amazon o Google stanno costruendo, rendono il cambiamento veloce, all’apparenza talmente complesso da renderne talvolta impossibile la comprensione prima di esserne asserviti e dipendenti.
Come è stato quando si chiamava solo Innovazione o Progresso, con la digital disruption le aziende millantano tutte di mettere i loro clienti davanti a tutto, di lavorare alla creazione di un nuovo sistema di valore usando stavolta strumenti e piattaforme digitali invece che catene di montaggio. Peccato che l’essenza della maggior parte dei prodotti e dei servizi che si ha modo di vedere dopo la disrupzione non risponda a bisogni dei consumatori, tantomeno li coinvolga per fini nobili e non di semplice schedatura, ma glieli induca e poi li soddisfi.
In effetti di complessità e novità se ne vede poca, terminologia a parte, si intende.
Devo dire a quelli di Tafter che di digital disruption è il caso di pubblicarne d’estate, quando la finta complessità è fusa dalla canicola.
Samuel Saltafossi è sociologo della complessità