A Firenze, in Oltrarno, esattamente nella zona compresa tra piazza de’ Nerli e piazza del Carmine, ovvero in Sanfrediano, l’anno scorso sono avvenuti due cambiamenti. Due cambiamenti relativi alla morfologia dello spazio urbano. Nulla di clamoroso, nessuna nuova edificazione né, all’opposto, un abbattimento. E neppure mi riferisco al reticolo di scavi che negli ultimi sei mesi ha segnato le strade di quella zona della città . Molto più semplicemente, i due cambiamenti sono consistiti in questo. La tabaccheria che si affaccia in piazza de’ Nerli ha attivato, nelle ore notturne e nel fine settimana, il servizio self service, sempre più diffuso nelle città italiane. Era già attivo quello relativo alle sigarette, a quello si è aggiunta l’erogazione di bibite, patatine e snack vari. Poco più in là , salendo verso piazza del Carmine, in via dell’Orto, negli stessi giorni in cui veniva attivato questo servizio è stata aperta una videoteca. O, meglio, uno sportello self service presso il quale, utilizzando una tessera prepagata, è possibile scegliere e prelevare videocassette e dvd.
Queste due piccole metamorfosi del tessuto urbano, persino impercettibili se confrontate a opere pubbliche più evidenti (se non prepotenti), mi sono reso conto essere state la scaturigine di una serie di cambiamenti nelle abitudini dei fiorentini che vivono in Sanfrediano. Nel senso che sono nati nuovi punti di riferimento, nuove possibilità , altri modi di avere a che fare con lo spazio, di sentirlo vivere intorno. Magari, a partire da queste metamorfosi, si saranno generate storie che intersecano anche quei luoghi, storie anche futili, litigi di coppia sul film da scegliere risolti nel percorso verso il distributore nell’altra piazza, definitivamente conclusi poi tra una sigaretta e un sorso di aranciata. In sostanza, ho pensato, queste due micromodifiche del territorio sono anche nuove zone di innesco di azioni, di episodi, di storie ancora abbozzate, amorfe, storie che si modelleranno sullo spazio reale, concreto, della città .
E ho pensato a quello che è in generale il legame che intratteniamo con il territorio. Ognuno di noi intrattiene con il territorio circostante un rapporto biunivoco, di reciprocità narrativa. Ognuno di noi si fa narratore dello spazio nel quale vive e ognuno di noi da quello spazio è narrato. Queste narrazioni avvengono per lo più involontariamente. Prendo un appuntamento con un amico e dico ci vediamo alle cinque al parcheggio tra piazza della Piattellina e piazza del Carmine, hai presente?, dove all’angolo c’è l’edicola e la bancarella del signore sordo che vende la frutta, però esattamente dall’altra parte rispetto al Dolcevita, il locale fighetto che mi sta antipatico. In un semplice appuntamento ho concentrato percezioni, valutazioni, interpretazioni di un luogo. Ne ho filtrato caratteristiche, le ho messe in scena a uso e consumo del mio interlocutore. Ho stabilito una connessione tra il linguaggio e lo spazio, ho domandato al linguaggio di organizzare lo spazio e, seppure in una forma ancora minima e funzionale, di raccontarlo.
Più sottile è la narrazione che il territorio fa di noi, più sottile perché più carsica, clandestina, fatta di sollecitazioni quasi sempre impercettibili, che sta a noi riuscire a cogliere, a decifrare. Il territorio agisce, agisce soprattutto modificandosi microscopicamente e lentissimamente, un millimicron di lineamento ogni milionesimo di secondo. Se noi vorremo prestargli attenzione, se sapremo essere altrettanto microscopici e lenti nell’ascoltare quello che ci sta dicendo, allora ci troveremo davanti allo spettacolo di un frammento di marciapiedi che a forza di essere calpestato si è sfaldato in un punto, ed essere capaci di concentrarci su quella sfaldatura della pietra ci permettere di sentire la tenerezza dell’invecchiamento della carne, della nostra stessa carne, un ennesimo normalissimo episodio di biodegradazione, tanto qualsiasi quanto in sé struggente, da percepire e da rappresentare in una storia. Tutto ciò perché il territorio non è un fatto passivo, il fondale neutro e silenzioso di una vicenda. Al contrario, il territorio – e quindi una città – è sempre un qualcosa che accade, un fatto specificamente narrativo, o meglio un fatto da osservare in una prospettiva narrativa (ci sono città – limitandosi a quelle italiane – più discrete, come ad esempio Torino, che si trattengono il più possibile al margine e cercano di non disturbare, di non intralciare i movimenti, il passo, i progetti, e altre più partecipi, addirittura invadenti, come Roma, che continuamente sollecita, provoca, suggerisce, domanda e concede complicità a chi le si muove dentro – lo sapeva bene Rugantino quando le domandava di essere parte attiva nel suo proposito di seduzione).
In sostanza, questo lavoro di percezione dello spazio come enorme jamais vu, come percezione inedita ancora da raccontare, è quello che gli scrittori tendono a compiere quando nel narrare una storia si confrontano con il set della storia stessa. Un luogo, nello sguardo di una scrittore, non è mai ovvio, non è mai dato, non è mai concluso ma è sempre acceso, è un ordigno composto di materiali e di linguaggio, è un potenziale da far esplodere nella narrazione, è continuamente luogo reale e scenografia, contenitore e contenuto di una drammatizzazione. Lo sanno bene gli innamorati per i quali lo spazio è sempre scenografia della loro storia d’amore, sicché dappertutto – sto chiaramente semplificando – compaiono tramonti – o, meglio, è il loro sguardo a produrre tramonti, a secernere tramonti a causa del loro bisogno continuo di reinvenzione sentimentale del territorio, di reinvenzione lirica, struggente, persino stucchevole, a volte.
Uno scrittore ha sempre uno sguardo innamorato – e non necessariamente di tramonti.
L’innamoramento, si sa, può esprimersi stimolando funzioni vitali dell’essere umano. Si ama e si mangerebbe di baci la persona amata. Si ama e si mangerebbe. L’innamoramento genera fame. Lo scrittore desidera mangiare territorio. Hansel e Gretel, nella favola dei fratelli Grimm, trovano una casa di marzapane e dolci vari. Cominciano a mangiarla. Per loro il territorio è addirittura seduzione, evento appetibile, goloso, una cosa da rosicchiare, da mordere, da mangiare, lo spazio come fenomeno commestibile da inghiottire, da traslocare all’interno del corpo. Una rappresentazione perfetta di come sia possibile agire sul territorio secondo desiderio. Lo scrittore – come una sorta di Pac Man della narrazione (vi ricordate Pac Man?, era il protovideogioco nel quale il movimento nello spazio di un labirinto coincideva con l’ingestione di tracce-pallini) – vuole mangiare lo spazio, vuole nutrirsene, vuole assimilare spazio, assorbire spazio, vuole trasformare la percezione dello spazio in esperienza, in sensibilità, e a quel punto restituirlo in forma di messinscena narrativa, narrativamente compiuta.
A tutto questo sguardo, a tutta questa fame, non possiamo che augurare un feroce appetito.