Intervista a Bartolomeo Pietromarchi (Fondazione Olivetti di Roma), e Lorenzo Romito (Stalker)

Puoi darci, innanzitutto una tua definizione di Osservatorio Nomade Stalker?
Lorenzo Romito: L’idea dell’Osservatorio Nomade nasce dall’esperienza di Stalker, un gruppo che da sempre si confronta con un’operatività reticolare e collettiva, nell’ambito di un progetto che intende attraversare le dimensioni del territorio e in qualche modo anche le realtà che lo gestiscono. Parlo dei sistemi di gestione pubblica, ma anche di realtà più piccole, da coinvolgere con una strategia che potremmo chiamare guerriglia strategy. Con l’obiettivo di creare un modello operativo che non assecondi semplicemente le opportunità che vengono fornite ma riesca ad indirizzarle in un percorso consapevole.

Da cosa l’esigenza di costituire l’Osservatorio e, attraverso di esso, intessere dei rapporti con le amministrazioni pubbliche?
LR: Questa esigenza nasce dopo un’esperienza, in tutto autogestita, da noi realizzata al Campo Boario di Roma con i rifugiati curdi. Io, che ero all’epoca borsista all’accademia di Francia, e Bartolomeo Pietromarchi, da poco approdato alla direzione della Fondazione Olivetti, abbiamo iniziato a costruire un tessuto di credibilità attorno all’operazione, che all’epoca mancava ancora dei meccanismi fondamentali di relazione con l’amministrazione pubblica. Il Comune di Roma, in quel momento non poteva, o forse non sapeva, mettersi in relazione con questa situazione ”˜informale’ da noi intrapresa. Ci siamo sforzati quindi di creare un’attenzione internazionale attorno ad un progetto che mancava degli strumenti elementari di avanzamento perché avveniva su un territorio comunale senza che ci fosse un’interazione con l’amministrazione pubblica.
Poi l’iniziativa è cresciuta grazie alle numerose collaborazioni con artisti, ricercatori, e studenti. Abbiamo organizzato workshop, concorsi, in modo da organizzare una rete. Volevamo che Osservatorio stesso fosse una rete che si potesse poi condensare attorno a diversi progetti, ma che non necessariamente si strutturasse come un soggetto unico e definito.

Quanto tempo fa viene alla luce l’Osservatorio come progetto di ricerca all’interno di Stalker?
LR: Nasce due anni fa, nel Salento, quando un sindaco decise di assegnarci una residenza dove abbiamo potuto iniziare una riflessione su quel territorio, in particolare sulla masseria e sulla parte orientale della regione, anche nei suoi rapporti con la vicina Albania. Le idee guida della nostra ricerca, sulle quali ci siamo basati per cominciare ad immaginare un percorso, sono: l’assenza di pregiudizi, l’avvicinamento al territorio, il dedicarsi ad una pratica di ascolto, costruire relazioni con la comunità , e infine produrre modelli immaginativi che potessero funzionare in qualche modo da stimolo nella costruzione di relazione.
Nel contempo c’era bisogno anche appunto di creare un rapporto con l’amministrazione, per capire come questa pratica potesse essere inserita in un percorso che potesse trovare energia ed economia attraverso l’unione europea, attraverso le amministrazioni locali, attraverso fondi strutturali, o altro. Una altro aspetto è quello didattico, che si concretizza nell’idea dell’Università Nomade, fatta di conferenze, workshop, incontri, percorsi formativi legati al territorio.

Com’è cambiato l’atteggiamento delle istituzioni, del Comune di Roma ad esempio, dall’esperienza di Campo Boario a quella di Corviale? Qual è stato l’elemento che ha favorito l’interessamento e il sostegno dell’amministrazione comunale?
Bartolomeo Pietromarchi: Tra le due esperienze -Campo Boario e Corviale- c’è una differenza sostanziale. La prima è un’iniziativa d’artista, partita sostanzialmente da Stalker e che la Fondazione Olivetti ha seguito successivamente. Quindi tutto il lavoro sui rapporti istituzionali è stato fatto dopo e si è configurato come un primo esperimento, per immaginare possibili relazioni con l’amministrazione pubblica. Nel caso di Corviale invece il percorso è stato inverso. L’opportunità è stata cercata e trovata dalla Fondazione, costruita in un lunghissimo processo di mediazione con l’amministrazione, e definita insieme all’Osservatorio Nomade. Abbiamo firmato con il Comune di Roma – Assessorato per le Politiche per le Periferie- una vera e propria convenzione secondo la quale il progetto viene da loro finanziato per l’80%. L’accordo si inquadra in una cornice estremamente definita e in stretta collaborazione con il Laboratorio di Quartiere, un ente con cui bisogna costantemente mettersi a confronto e mediare.

Voi siete una Fondazione culturale, e immagino avrete dei criteri economici attraverso i quali poi sviluppate le vostre politiche. Con quali criteri stabilite che tempistica dare ad un progetto e quali investimenti fare? Quali sono le variabili con cui definite un indicatore, e quali i ritorni che vi prefissate di avere?
BP: Nel caso specifico di Corviale il nostro ruolo è stato quello di mediatore tra l’Amministrazione e l’Osservatorio Nomade, oltre che di curatore scientifico del progetto. Per cui tutti i tempi e i ritorni li abbiamo definiti secondo la volontà del committente che in questo caso è il Comune. Quando siamo noi i committenti e gli investitori, i criteri variano da caso a caso. Non abbiamo una regola precisa e soprattutto non abbiamo tra i nostri obiettivi il ritorno economico. A noi interessa che il progetto culturale abbia un ritorno in termini di efficacia. Il nostro indice di valutazione dipende dal soddisfacimento di coloro ai quali è diretto. Quindi il discorso è molto variabile, i parametri sono soprattutto parametri culturali, più che di immagine o economici.

In un contesto in cui tutti parlano di intervento e di recupero, Stalker ha teorizzato l’abbandono come metodologia operativa per la cura e la salvaguardia dei luoghi. Puoi spiegarci questo concetto?
LR: Questa idea è stata per noi un punto di partenza. Apparteniamo ad una generazione, quella che faceva l’Università negli Anni Novanta, in qualche modo priva di padri culturali e progettuali. La frustrazione derivava dal fatto che la progettazione avveniva su un canale che aveva una ricaduta nel reale profondamente diversa. E che la disciplina architettonica non teneva conto dei passaggi concreti nella trasformazione del tessuto urbano. Quindi la nostra prima mossa è stata quella di creare un vuoto, non solo nella disciplina della progettazione, ma anche nel territorio. Iniziammo una lettura dei luoghi, con un atto simbolico: un giro attraverso gli spazi abbandonati della città, che durò cinque giorni, con le tende. Per leggere e interpretare uno spazio che sfugge alla pianificazione. Ne derivava una dimensione sospesa dello spazio urbano, una sorta di liquido amniotico all’interno del quale la città si muove, un dato che restava totalmente estraneo alla valutazione sia degli amministratori che dei progettisti.
L’idea di praticare quello che chiamiamo ‘l’ascolto del territorio’, fu il primo input, a livello metodologico. Dove non c’è pianificazione assistiamo a dinamiche caotiche, conflittuali, ma anche auto-organizzative. In molti luoghi, specie periferici, mentre c’è già un piano di recupero di quello spazio, non esiste invece una mappa di quello che è quella realtà.

Si tratta di spostare il punto di partenza degli interventi sul territorio?
LR: Si, si tratta certamente di spostare il punto di partenza, ma anche di non prevedere un punto d’arrivo con troppa determinazione, perché esso viene plasmato attraverso un percorso processuale. All’interno di questo percorso noi chiamiamo la Fondazione Olivetti a fare da mediatore con un’istituzione che, altrimenti, questa modalità non riuscirebbe a sussumerla.

Come percepiscono le istituzioni questo tipo di intervento? Si sentono attaccate oppure percepiscono realmente la validità del progetto? Come si rapportano con la radicalità dei presupposti alla base del metodo Stalker?
BP: E’ in atto un difficile lavoro di mediazione tra queste istanze innovative e quella che può essere la comprensione e il sostegno da parte dell’Amministrazione Pubblica. Tuttavia il lavoro di Stalker si basa su una metodologia che, anche a livello terminologico, rispecchia un modello in cui l’amministrazione crede molto: quello che potremmo chiamare pratica trasformativa partecipata. Su questa base qui abbiamo costruito la convenzione a livello di linguaggio, che è un primo livello molto importante. Il secondo livello è costituito da quello che succede realmente.

C’è la necessità forse di servirsi di linguaggi forti, di meccanismi non convenzionali per risvegliare l’attenzione e stimolare la partecipazione?
BP: Più che attenzione, stiamo parlando proprio di possibilità di trasformazione reale del territorio. La possibilità di far prendere coscienza alle persone che lo abitano di certe dinamiche, di certe possibilità, anche di autogestione e di autodecisione. Chiaramente, un’idea di questo genere può mettere in crisi il rapporto tra la politica e la sua rappresentatività. I rapporti sono sempre difficili, è complicato far capire quello che si sta facendo, perché lo si sta facendo e quali possano essere le possibili conseguenze. C’è da parte dell’amministrazione sicuramente un timore, ma il ruolo della fondazione è anche quello di difendere gli artisti da qualsiasi interferenza politica o di censura.

LR: Per noi è fondamentale non dover operare in scadenze precise o elettorali, di non essere riconosciuti immediatamente come ‘quelli con i soldi spesi dal Comune’. Si innescherebbero delle pregiudiziali poi troppo difficili da rimuovere. Noi cerchiamo catalizzare processi autorganizzativi all’interno del quartiere, di fornire immagini e visioni e che possano essere condivise da tutti. Cerchiamo di attrezzare l’Astronave Corviale con una sorta di equipaggio, che sia in grado poi di gestirla. E affinché questo possa essere metabolizzato, è fondamentale l’impegno delle istituzioni, attraverso l’amministrazione, attraverso l’incubatore di impresa, attraverso percorsi formativi. E’ importante che l’amministrazione creda nell’idea che c’è alla base, perché se non crede non metterà in campo gli strumenti affinché il progetto possa andare avanti e non rimanere solo teoria.

Quanto cercate il riconoscimento delle istituzioni? È importante per voi e in che misura?
LR: Il riconoscimento delle istituzioni ha un peso perché significa che l’Europa siamo anche noi, che il Comune di Roma siamo anche noi. Poi per noi è fondamentale che il nostro lavoro non rimanga solo teoria, perché fondamentalmente non ha senso mettere insieme una macchina perfetta se poi è una macchina inutile.

La sinergia tra Fondazione Olivetti e Osservatorio Nomade rispetto agli interventi sul territorio si è finora concentrata su un modello di approccio “alternativo”, in qualche modo radicale, in linea con la poetica del gruppo Stalker. Pensate nel futuro di proseguire su questa strada o pensate anche a diverse modalità di intervento e riqualificazione del territorio?
BP: C’è un’altra grossa sezione di interventi sul territorio che si chiama Nuovi committenti. È un programma di arte pubblica inventato dalla Fondation de France circa una decina di anni fa, applicato in Francia in più di cento casi, che noi da due anni e mezzo abbiamo importato in Italia. Consiste nel ribaltare quelli che sono stati nel passato i ruoli e le competenze nell’arte pubblica. Tradizionalmente essa è espressione di un potere costituito, che commissiona ad un artista l’interpretazione creativa di alcuni valori che dovrebbero essere condivisi dalla collettività. Questo metodo è entrato in crisi, e ora il committente diventa il cittadino stesso, che si rivolge ad un’istituzione indipendente come la fondazione, la quale individua un mediatore culturale in grado di seguire il committente/cittadino in tutte le sue fasi: dalla richiesta alla discussione con l’artista, fino alla realizzazione dell’opera.

Quali sono le prime commissioni italiane?
BP: Questo modello lo stiamo applicando a Torino, a Mirafiori Nord, nell’ambito del progetto Urban della comunità europea, a Canistro che è un piccolo paese dell’Abruzzo, una comunità montana che ha cominciato con questa committenza e ha intenzione di portarla avanti con altri casi in tutta la Valle Roveto. Una terza committenza è al valico del Piccolo San Bernardo, insieme alla Fondation de France, per un ostello. Poi siamo in trattativa per altre due situazioni molto interessanti che però sono all’inizio: un progetto di riqualificazione di un intero territorio sul Lago Maggiore e la collaborazione con un’azienda privata che gestisce spazi pubblicitari mobili nella città.

cos’è osservatorio nomade
Osservatorio Nomade è un progetto transdisciplinare di ricerca La modalità di intervento proposta è sperimentale, fondata su pratiche spaziali esplorative, di ascolto, relazionali, conviviali e ludiche, attivate da dispositivi di interazione creativa con l’ambiente investigato, con gli abitanti e con gli archivi della memoria. Tali pratiche e dispositivi sono finalizzati a catalizzare lo sviluppo di processi evolutivi auto-organizzanti, attraverso la tessitura di relazioni sociali ed ambientali, lì dove per abbandono o per indisponibilità sono venute a mancare. La traccia di tali interventi verrà a costituire una mappatura sensibile, complessa e dinamica del territorio, realizzata con il contributo dei più diversi approcci disciplinari, attraverso cui si intende investigare i mutamenti in atto nel rapporto tra uomo e ambiente. Tale mappatura conterrà dati sofisticati e molteplici e al contempo risulterà uno strumento capace di attivare interesse e di facile accessibilità. La modalità operativa descritta, oltre ad essere un inedito strumento di conoscenza, potrà contribuire a promuovere la diffusione di una maggiore consapevolezza della popolazione nei confronti del proprio territorio e quindi ottenere più efficaci feedback di partecipazione creativa nella gestione delle problematiche territoriali e urbanistiche. www.osservatorionomade.net

immaginare corviale
Immaginare Corviale è un progetto che risponde ad un’esigenza diffusa tra gli abitanti di Corviale: modificare l’immagine stereotipata dell’edificio come simbolo della periferia sbagliata puntando sul coinvolgimento attivo degli abitanti nella invenzione di una nuova immagine del quartiere. L’Osservatorio Nomade/Stalker – gruppo interdisciplinare composto da artisti, architetti e videomakers – sta lavorando sul territorio da Aprile 2004, ed ha rapidamente trasformato il quartiere in un laboratorio permanente di produzione artistica, musicale e multimediale attraverso l’organizzazione di laboratori, incontri con gli abitanti, esplorazioni/incursioni sul territorio. I risultati delle ricerche svolte in questi ultimi due mesi sarà presentato pubblicamente giovedì 3 giugno in diverse sedi all’interno ed intorno l’edificio.

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