Accendiamo la televisione, il nostro programma non è ancora iniziato. O forse sì e stiamo facendo zapping. Comunque incontriamo la pubblicità . La guardiamo: spesso è meglio dei programmi che passano in tv.
Vediamo un autista che offre dei cioccolatini alla propria padrona: maligniamo sul loro rapporto. Vediamo una casalinga che va a giocare a tennis dopo aver lavato casa in pochi minuti: sorridiamo, ironici. Vediamo un’automobile sfrecciare sicura e maschia sull’autostrada: ci chiediamo quanto mai potrà costare.
Vediamo un personaggio vestito di cenci che riconosciamo appartenere ai nostri ricordi scolastici e lo vediamo introdursi in una capanna e da lì comunicare a tutto il globo tramite un reticolo di tecnologie, portando un messaggio che immaginiamo essere di pace e fratellanza. La musica incalza e tutto termina con il logo di una compagnia di telecomunicazione. Restiamo affascinati, ci sentiamo più buoni e pronti a grandi gesti. Ma c’è qualcosa che non funziona. Cos’è successo?
E’ successo che abbiamo appena assistito all’ultima pubblicità della Telecom Italia che vede coinvolti la Young&Rubicam come agenzia e Spike Lee come regista. Tutta la campagna ha un forte legame con le atmosfere cinematografiche: nella connotazione della trama, nella cura delle immagini, nella scelta del regista, persino nella colonna sonora (Sacrifice di Lisa Gerrard e Pieter Bourke, dalla colonna sonora del film Insider di Michael Mann). Non è un film, è un commercial ”“ come lo chiamerebbero negli USA. Ma è affascinante come un film.
La Telecom non è nuova a questo tipo di comunicazione. Lo scorso anno la (splendida) campagna “Comunicare come respirare” aveva catturato l’attenzione di tutti con le sue immagini di un mondo dove le cornette dei telefoni sono disfunzionali, dove la carta stampata è solo carta, dove i cartelli di protesta sono privi di slogan. In una parola immagini di un mondo che non c’è. Un’utopia.
Quest’anno c’è un nuovo concept che gioca invece sull’autorevolezza di una figura importante come quella di Gandhi (è lui il personaggio vestito di cenci) e nella prefigurazione di un mondo sovramediatizzato alle soglie della seconda guerra mondiale. Un’ucronia.
E’ buona l’idea, è buono il regista, è buona la fotografia, è buona la musica. Allora? Allora il messaggio esplicito ed implicito veicolato è pesantemente ideologico.
Beninteso: nessuno sta considerando la pubblicità come “cattiva” perché “inganna” lo spettatore televisivo. Sono critiche quantomeno ingenue per una società che convive con i mass media da circa 200 anni e che da qualche anno sta vedendo sorgere la generazione Internet. Sappiamo che la pubblicità deve vendere, sappiamo che la pubblicità deve giocare con gli stereotipi, sappiamo che per far questo deve colpire l’attenzione in soli 30”.
Ma sappiamo anche che viviamo in un periodo in cui il potere evocativo dell’immagine è molto potente, in cui si può facilmente passare dall’immagine all’immaginazione. E in cui è facile manipolarle, le immagini. Vediamo i punti in cui l’ideologia si manifesta con tutte le sue caratteristiche.

1. Il ruolo della tecnologia
Chi sono i protagonisti di questo spot? Gandhi, sicuramente, insieme alle persone sparse per il mondo: da Roma a Londra, da Pechino a Mosca. In realtà sono solo comprimari. E’ la tecnologia la vera protagonista. Webcam, laptop, videowall, cellulari: tutto contribuisce a diffondere le parole del Mahatma. Quindi la tecnologia è bella. La tecnologia è buona. La tecnologia unisce le persone. Ma in questo caso il messaggio che la tecnologia veicola è ideologico.
Lo è perché la diffusione delle tecnologie della comunicazione contribuisce ad unire le persone non più di quanto il termometro aiuti a curare la febbre. È una questione di volontà. Internet è un potente fattore di democratizzazione non di per sé stessa, ma perché chi usa internet lo fa in quanto ha bisogno di uno strumento che abbia delle opportunità di comunicazione che altri non anno. E questo vale per i telefonini. Questo vale per tutta la pletora di tecnologie che costellano la nostra vita quotidiana.
Non è la stampa a caratteri mobili ad aver fatto nascere la riforma protestante, non sono i quotidiani a fare la libertà di stampa, non è stata la radio a portare all’ascesa di Hitler. Perché dovrebbe essere Internet a unire le persone?

2. La retorica della parola
Non è la tecnologia ad unire: la tecnologia è strumento di una volontà politica. Allora ben venga il discorso di Gandhi. Ben venga il suo messaggio. Qui l’ideologia è relativa alla forza delle parole. Ovvero basta semplicemente che le persone diano ascolto ai grandi discorsi per far sì che diventino migliori. Questo tipo di impostazione è ideologica perché non considera che le parole sono grandi se chi le dice è considerato grande, se chi le dice non è considerato autorevole, allora ciò che dice non ha importanza.
Gandhi per i suoi contemporanei veniva vissuto in maniera controversa. Se da una parte c’era chi lo chiamava Mahatma (cioè “grande anima”) dall’altra c’era il suo interlocutore politico Winston Churchill che lo chiamava half-naked fakir (cioè “fachiro mezzo nudo”). Quindi è piuttosto improbabile che potesse suscitare altro se non scettica curiosità coloniale nel cuore dei suoi avversari politici.
Nello spot le parole di Gandhi raggiungono senza problema vaste folle sparse nel mondo. Comunicare su vasta scala è un problema di accesso: per comunicare a grandi folle bisogna essere legittimati a farlo. Quindi anche se fosse stato possibile parlare in contemporanea a tutti gli abitanti del pianeta, non sarebbero stato certo le controverse idee sulla non violenza di Gandhi a venire fuori dalle tecnologie, ma altre idee politiche meno edificanti e di altri personaggi meno raccomandabili, più abituati a gestire il potere con la forza.
Infine: cosa dice precisamente Gandhi? Non lo capiamo: non solo parla inglese, ma lo parla con un forte accento indiano. Lo spot conta sul fatto che sullo spettatore non faccia effetto ciò che Gandhi dice, ma che sia Gandhi a dirlo. Sicuramente qualcosa di profondo e importante, perché è questo che noi sappiamo di Gandhi. In questa pubblicità Gandhi non è un uomo politico portatore di un messaggio sulla non violenza: è un marchio, un brand, una griffe politically correct.

3. Il confezionamento dello spot
Finora ci siamo concentrati sull’ideologia interna: la tecnologia, l’uso di Gandhi e delle sue parole/non parole. Esiste anche un altro elemento che la rende ideologica, ed è il ruolo della pubblicità.
Questa pubblicità non vende un piano di abbonamento telefonico, non vende telefonini né tanto meno videotelefoni. Vende un’immagine, un’idea, una serie di valori che dovremmo collegare ogniqualvolta vediamo il logo della Telecom. È quella che si chiama una campagna di corporate identity, ovvero di definizione dell’identità della compagnia. Tale effetto dovrebbe essere raggiunto attraverso le parole con cui la pubblicità raggiunge l’apice: “Se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?” Come rispondere a questa domanda?
Se la tecnologia da sola unisse le persone, se Gandhi avesse avuto la possibilità di comunicare con tutto il mondo, se gli inglesi gli avessero permesso di diffondere le sue idee, se fosse stato legittimato a dare un messaggio al pianeta, se tale messaggio fosse stato comprensibile a tutti indipendentemente dalla lingua parlata, comunque non potremmo sapere oggi che mondo sarebbe stato.
Troppi “se” in cambio di una non-risposta.

In sintesi possiamo dire che il vero peccato originale di questa campagna non è tanto la sua ideologia, ma il fatto che rafforza alcune idee su media, tecnologia e società che serpeggiano nel panorama culturale negli ultimi tempi. Sarei tentato di dire “nel senso comune”, ma non è il solo ad esserne affetto. Va bene che tenga il cervello momentaneamente occupato, mi sembra giusto: è un ottimo prodotto. Basta non crederci fino in fondo.

Riferimenti:
http://www.tecnoetica.it

www.tvspot.it/spot.php?id=574

Davide Bennato è ricercatore presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma “La Sapienza”. Si occupa di studi sociali della scienza e comunicazione pubblica della tecnologia. Fra le sue pubblicazioni: Reti e processi comunicativi nella globalizzazione (1999); Reti. Comunicazione e infrastruttura (2002); Gli archivisti di Babele. Privacy e informazioni in rete (2002), Le metafore del computer (2003).