Intervista a Mattia Torre, autore, regista e sceneggiatore

Il teatro sembra vivere un momento di stallo. A parte gli spettacoli in qualche modo ispirati ai repertori più tradizionali, sembra manchino spunti originali. Eppure qualcosa si sta muo-vendo. Ad esempio l’esplosione del teatro di narrazione (monologhi raccontati), un po’ come nel caso del tuo In mezzo al mare. A cosa è dovuto secondo te questo spostamento?
Sinceramente non saprei dare un giudizio sulla realtà complessiva del teatro in Italia né valutare i termini di questo spostamento. Per quanto riguarda In mezzo al mare, ho scelto il monologo perché mi sembrava la forma più appropriata per raccontare quella storia e perché avevo in testa le qualità dell’attore che lo avrebbe interpretato. E’ anche vero che un monologo è per ovvi motivi più agile e meno costoso e questo rende meno complesso il percorso produttivo. Forse lo spostamento di cui parli è anche dovuto a questo.

Da Paolini a Baliani, fino a Scimone e Celestini, il teatro è sempre più una prova d’attore che si misura nell’intimità di questioni ‘politiche’. C’è secondo te un nuovo bisogno d’impegno nel teatro?
Hai citato autori che a mio giudizio hanno una caratteristica comune: si rivolgono a tutti. In questo personalmente individuo il maggiore impegno politico. Non amo invece gli spettacoli che si rivolgono solo a un pubblico colto e sofisticato, come avviene nella maggior parte dei casi. In Italia la questione è peraltro molto delicata: il nostro è un Paese politicamente, culturalmente spaccato in due. E trovo che il teatro si conceda spesso il vanitoso capriccio di rivolgersi solo a un’elite culturale. Per essere più impegnato, il teatro dovrebbe essere più generoso.

Da un lato il cabaret che furoreggia ovunque (in tv e nei teatri), dall’altro comici che spaven-tano nell’idea di scuotere le persone (un po’ la tradizione che lega i Beppe Grillo ai Paolo Rossi). Quanto è importante l’ironia nel dire le cose serie?
Da sempre, credo, scrivere comico è scrivere soprattutto cose terribili. Ma l’ironia e la comicità sono strumenti. Servono a far salire tutti quanti a bordo di una storia, come fosse una nave. Il fine è il senso che la storia ha, la direzione che vuole prendere, ciò che vuole dire. Nel migliore dei casi, la sua necessità . Credo che conoscere il motivo preciso per cui si scrive una storia sia uno dei presupposti fondamentali alla sua piena realizzazione. Se poi la storia fa ridere, il suo contenuto passa in maniera più sottile, viscerale: può essere una delle cose più emozionanti della narrazione.

In mezzo al mare è uno spettacolo molto suggestivo. In qualche modo, la storia di un uomo che non riesce a ritrovarsi nel caos che lo circonda. Il processo che si innesca con il pubblico è di identificazione. Cosa pensi di questo nuovo modo di cercare la complicità del pubblico?
In un’epoca in cui siamo letteralmente tempestati d’informazioni d’ogni genere, In mezzo al mare racconta la storia di un uomo che realizza di non capire niente. Niente degli amici che ama tantissimo e che vorrebbe tutti completamente diversi, niente della città , niente della vita degli altri, niente del mondo. L’attore protagonista del monologo, Valerio Aprea, incarna questo sentimento di smarrimento in maniera paradossalmente lucidissima. Credo che sia questo contrasto a suscitare empatia e divertimento. Sempre per rimanere in tema, ora sto lavorando a un monologo con Valerio Mastandrea che debutterà a febbraio a Roma, al Piccolo Jovinelli. E’ la storia di un uomo che entra in crisi e diventa cattivo; una volta divenuto cattivo, la società gli apre tutte le porte. Sulla complicità del pubblico in quel caso, ecco, non oso fare previsioni.

Nel caso dei reality, ad esempio, è chiaro che si gioca sullo spingere le persone a desiderare di essere gli altri, al di là del video. C’è qualcosa di buono che può essere recuperato da queste nuove forme di linguaggio autoriale?
Nel suo bellissimo libro Il cuore oscuro dell’Italia Tobias Jones scrive: “…l’aspetto affascinante dei reality non è vedere la vita normale della gente comune, ma vedere come può sopravvivere la gente comune quando è privata della principale attività della propria esistenza: guardare la televi-sione.” Nessuno ci aveva mai veramente pensato, credo, eppure è un punto cruciale; i partecipanti dei reality non sono come noi: non guardano la tv. E trovo che questo dia un’idea della distanza che intercorre tra ciò che in televisione ci viene presentato come reale e ciò che lo è veramente.

Una parola sul pubblico. Che cambia rispetto alle lingue che si usano, ma, soprattutto, rispet-to ai messaggi. Che importanza ha per te ‘parlare’ con il pubblico?
È uno stimolo grande. Sembrerà una banalità, ma a me piace raccontare cose comprensibili. Che magari abbiano piani diversi di lettura, ma che siano chiare, che arrivino al pubblico. La frase “Eh, il mio spettacolo non è stato capito” è una frase brutta. Semplicemente, penso che se il pubblico non capisce una cosa, vuol dire che quella cosa non è chiara o non è emozionante. Mi è successo di con-fidare in battute o situazioni che hanno suscitato gelo in sala. Evidentemente erano sbagliate.

Tu sei anche autore televisivo (come nell’ultimo Nessun Dorma di Paola Cortellesi). Rispetto alla tv, quanto quel che accade con i nuovi format e quanto dei ritmi della televisione condi-ziona il modo di comporre?
Nel mio caso moltissimo. Per cercare di scrivere cose comprensibili a tutti penso sia necessario adeguarsi ai ritmi e alla velocità della televisione. Non lo trovo un male. Al contrario, trovo crudeli gli spettacoli teatrali di quattro ore. E compiaciuti e narcisi quelli lentissimi. Se l’obiettivo del teatro è di parlare alle persone, bisogna parlare la stessa lingua che tutti noi siamo abituati ad ascoltare, giusta o sbagliata che sia. È una questione di forma. La vera battaglia – il termine è un po’ pretenzioso – è sui contenuti.

Insomma, autore di teatro, di televisione e di cinema (con Piovono Mucche). Quante sono le anime di Mattia Torre e qual è la vera?
Aggirerò la domanda parlando di Piovono Mucche. Partendo dall’esperienza autobiografica del regista, Luca Vendruscolo, il film racconta la disabilità con una verità e una sincerità spiazzanti, ribal-tando tutti i luoghi comuni sull’handicap. È un film che comunica un senso di grande parità e reci-procità, come a dire: siamo tutti un po’ disabili. Per tornare alla risposta precedente, l’obiettivo di Piovono Mucche era preciso: fare una commedia divertente, ritmata, fruibile, e insieme far passare contenuti forti.

Dalla varietà degli interessi viene fuori il profilo di un autore inquieto, che ha voglia di speri-mentare. Come vedi il futuro della creatività autoriale? Pensando alla titolazione del nostro numero, Visioni e Missioni, puoi darci una visione del tuo lavoro e una corrispondente missio-ne?
La visione del mondo è la cosa più preziosa che abbiamo. La si può costruire, la si può aggiornare, la si modellare e cambiare. Il mondo intorno a noi è sempre più complesso. Non dobbiamo accontentarci di visioni preconfezionate, pronte all’uso o peggio ancora definitive. Per quanto riguarda invece la missione, credo che non ci si debba mai prendere troppo sul serio. È un rischio presente nella scrittura. E ti dirò: è un rischio presente anche nel rispondere a una bella intervista. Ma bisogna provare a evitarlo. Come il male peggiore.

Approfondimenti:
www.ilrossetti.it/Stagione_04_05/21in%20mezzo%20al%20mare.htm
www.filmup.com/sc_piovonomucche.html

Mattia Torre è autore, regista e sceneggiatore. Ha scritto e diretto lo spettacolo teatrale “In mezzo al mare” e vanta altre importanti collaborazioni: per Giorgio Tirabassi è co-autore dello spettacolo Infernetto ovvero la resistibile di-scesa di Arcangeli Angelo detto Angioletto, per Paola Cortellesi è co-autore dello show NessunDorma. Inoltre è autore delle commedie teatrali: Tutto a posto, Piccole anime, L’ufficio e del libro Faleminderit, Aprile ’99, in Albania durante la guerra. Nel 2001 ha scritto il film Piovono mucche e nel 2004 è adattatore per Italia Uno della serie Love Bugs con Michelle Hunziker e Fabio De Luigi.