1.
Walter Benjamin scrive: “L’allegoria porta con sé nella sua forma evoluta, quella barocca, un’intera corte: intorno all’immagine centrale, che nelle vere allegorie non manca mai come pendant alle perifrasi concettuali, si raggruppa la folla degli emblemi. Essi sembrano disposti ad arbitrio: La “corte” confusa – che è il titolo di un dramma spagnolo- potrebbe essere lo schema dell’allegoria”. In questo modo, il filosofo tedesco, attraverso una ricognizione su una forma estetica, mostra una lotta tra teorie e pratiche politiche. Mostra come il Seicento abbia vissuto drammaticamente il consolidarsi definitivo delle monarchie nazionali a scapito dei gruppi intermedi che il Medioevo aveva lasciato in eredità  all’età  moderna. Mostra come tutta la folla degli emblemi debba alla fine raggrupparsi giocoforza intorno ad una immagine centrale, come debba ritrovare e ritrovarsi sotto la direzione univoca di una corte. Mostra come il dettato di Hobbes, racchiuso nella celebre immagine del Leviatano, abbia avuto la meglio sulle moltitudini disperse -le periferie- teorizzate da Spinoza. Mostra ancora come la città  abbia governato il più ampio territorio circostante, richiamando a sé gli abitanti delle campagne (come insegna José Antonio Maravall, inizia nel Seicento il processo del tutto moderno di urbanizzazione, che raggiungerà  il suo apogeo due secoli dopo).
La modernità  è stata segnata da una riconduzione al centro di tutte le proprie periferie (geografiche, politiche, culturali), da una sorta di spinta centripeta tesa a convogliare i flussi energetici al cuore e conseguentemente a dominarli da questa posizione centrale.

2.
Certa filosofia (pensiamo a Gilles Deleuze ed epigoni) ha creduto di intravedere nell’esplosione dell’ordine mondiale avvenuta negli ultimi decenni, una diversa configurazione spaziale segnalata da concetti quali: rizoma, linee di fuga, deterritorializzazione. Concetti che avrebbero trovato nelle reti telematiche una sorta di manifestazione immediata. Sin dall’inizio, molti dei teorici dei network digitali hanno, infatti, descritto il nuovo spazio dell’abitare che le tecnologie hanno aperto come un luogo senza centri, un luogo di periferie paritarie, dove instaurare rapporti segnati da logiche del tutto opposte a quelle che hanno caratterizzato l’assetto politico-economico capitalistico. La formula del peer-to-peer è sembrata essere la migliore per descrivere le relazioni sociali caratterizzanti il ciberspazio. Tutti i futurologi statunitensi hanno percorso questa strada del ragionamento. Anche intellettuali più avveduti, come Pierre Lévy, non hanno mancato di sottolineare proprio questo aspetto delle reti. Nel frattempo, però, era possibile assistere ad una proliferazione incontrollata delle metropoli che invadevano il territorio storicamente periferico, questa volta con una sorta di movimento centrifugo. Sono emerse, così, le metropoli diffuse (Rem Koolhaas, tra gli altri) e l’economia-mondo si è ancor di più ritrovata sotto il dominio di poche città  globali (Saskia Sassen) collegate tra loro da reti di comunicazione e di trasporto non più finalizzate a dominare le lande sperdute in-between, ma anzi proprio a dimenticarle. Isolando nel contempo i luoghi della levigatezza, enclavizzandoli, e così diffondendo i non-luoghi di Marc Augé.
Considerare il rapporto tra le reti telematiche e le strade metropolitane è decisivo. Il rapporto tra lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi è infatti essenziale per entrambi in quanto determina il loro status non attraverso un rapporto di semplice gerarchia, in virtù del quale il primo determinerebbe il secondo (come sostenuto da Manuel Castells), ma attraverso l’instaurarsi di loop ri-creativi. Controprova: Albert-Laszlo Barabasi ha mostrato una struttura delle reti digitali niente affatto caratterizzata dalle periferie, bensì dal ruolo forte di alcuni centri (i “connettori”) caratterizzati però, a differenza che in passato, da maggiore instabilità.

Conclusione: se lungo la modernità il centro ha vinto sulle periferie (come Benjamin ci ha mostrato), ora serve a poco sperare in una rivincita delle periferie sul centro. Serve a poco perché si continuerebbe in tal modo a giocare la stessa partita (sperando e solo sperando in un risultato diverso) e alla fin fine si finirebbe con il perderla nuovamente. Conviene invece incaricarsi della persistenza dei centri e cercare di riequilibrare (senza voler rovesciare) il loro ruolo nella definizione dello spazio politico e culturale ormai globale. Conviene cioè continuare a chiedersi: quali sono i centri che attualmente ci governano? E come funzionano?

Il rizoma
Termine preso a prestito dalla botanica definisce un fusto orizzontale che si estende sotto terra, simile ad una radice. Ma il rizoma è anche la figura simbolica usata da Gilles Deleuze e Felix Guattari nel libro “Mille piani” per descrivere un tipo di sistema semiotico non gerarchico acentrato, opponendolo ai sistemi centrati il cui modello è l’albero. Il modello ad albero prevede una gerarchia, un centro e un ordine di significazione. Nell’albero i significati sono disposti in ordine lineare. Invece, secondo gli autori: ” A differenza degli alberi o delle loro radici, il rizoma collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mette in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. Il rizoma non si lascia ricondurre né all’Uno né al molteplice. Non è fatto di unità ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento, non ha inizio né fine ma sempre un mezzo, per cui cresce e straripa.”

www.postcontemporanea.it/jbox/2005/03marzo/tursi.htm  
www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/d/dekerc03.htm

Antonio Tursi (Cosenza, 1978) è dottorando di ricerca in Teoria dell’Informazione e della Comunicazione presso l’Università di Macerata, dopo essersi laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Roma “La Sapienza”. È senior fellow presso il McLuhan Program in Culture and Technology dell’Università di Toronto. Ha pubblicato vari saggi sui nuovi media e sta curando, insieme a Derrick de Kerckhove, il volume collettaneo Hyperdemocrazia. Alla ricerca della sfera pubblica nell’epoca delle connessioni digitali. Il suo ultimo libro è “Internet e il Barocco – L’opera d’arte nell’epoca della sua digitalizzazione” (Cooper, Roma, 2004)