Negli ultimi vent’anni la produzione di contenuti è aumentata in maniera esponenziale. La diffusione degli strumenti digitali ”“il computer in primis- insieme all’entrata in scena delle reti, ci ha introdotti in una nuova era; gli strumenti per la creazione di cultura (testi, immagini, musica, filmati) non erano mai stati così accessibili. Ma più aumentano i contenuti, più si fa gravosa la questione della loro memorizzazione, gestione e conservazione. Gli hard disk aumentano la loro capienza e i microprocessori moltiplicano ogni diciotto mesi le proprie capacità  di calcolo (secondo la famosa legge di Moore). I dati si accumulano senza sosta.
Ma i supporti digitali sono in grado di preservare la memoria di questo mare di conoscenza che con tanta fiducia gli affidiamo? Molti studiosi infatti mettono fortemente in dubbio la capacità  dei supporti informatici di resistere al passare del tempo. Paradossalmente, più veloce corre il progresso delle macchine -e più rapida si fa l’obsolescenza dei dispositivi- meno riusciamo a controllarne gli effetti. Se i bit sono immateriali, incorruttibili e dunque eterni, non si può dire altrettanto dei supporti che usiamo per memorizzarli. Secondo stime recenti, un cd ha una durata media di vent’anni, le pagine web spesso scompaiono senza lasciar traccia a pochi mesi dalla loro messa on line, l’hardware e il software cambiano struttura, protocolli e linguaggi. Il rischio concreto è quello di trovarsi, se non si mettono a punto strategie di controllo, riversaggio e conservazione, tra meno di un decennio, con montagne di dati registrati su supporti danneggiati o diventati illeggibili. E mentre archivi, biblioteche e istituzioni di tutto il mondo sono impegnate in colossali operazioni di digitalizzazione dei propri patrimoni, studiosi ed esperti invitano alla prudenza, ricordando la fragilità  e il carattere fin troppo effimero dell’informazione numerica.
Un caso particolare di reazione alla problematica, soprattutto per il carattere scientifico ed evocativo allo stesso tempo, è quello della Long Now Foundation. Situata a San Francisco, la fondazione si preoccupa di divulgare una concezione del tempo più lenta, un approccio verso la responsabilità  sociale che tenga conto degli effetti a lungo termine. Uno dei loro progetti più noti è un orologio. Un enorme e complesso meccanismo studiato per funzionare perfettamente per una durata di 10.000 anni. Che, come una vecchia pendola, ma con ritmi estremamente dilatati, ticchetti una volta ogni anno, rintocchi ogni secolo e mandi fuori il cucù ogni millennio.
Uno dei promotori e fondatori, Stewart Brand ha dichiarato, a proposito del rischio legato alla perdita dei dati digitali: “Si può prevedere come aggiornare il software fra un anno ma i decenni vanno ben oltre la nostra portata. Mentre la società  vive di decenni, la civiltà  vive di secoli”.

www.longnow.org