Un videogame è semplicemente un audiovisivo sinestesico interattivo.
In pratica siamo di fronte a delle immagini animate accompagnate da suoni in attività  su uno schermo e caratterizzati dalla possibilità  di intervento in prima persona del giocatore.
Il giocatore si misura con avversari (reali o virtuali) e mette il luce la propria abilità . Il gioco è un piccolo mondo che simula quello vero dove tutto è più difficile. Il videogioco si può vedere come un elemento di preparazione al mondo “vero”, uno strumento diallenamento ed addestramento per la vita, e allo stesso tempo una sorgente di piacere e di soddisfazione.
Non va dimenticata anche l’importante componente di ribellione al sistema (sociale, familiare, scolastico, di lavoro) contenuta in molti videogame: il gioco diventa per taluni giovani un elemento di fuga dal mondo “vero” e una forma di libertà  e di riscatto.
In una società  dove i bambini si comportano sempre più spesso come gli adulti e dove, d’altra parte, gli adulti cercano di perpetuare il più possibile un specie di eterna adolescenza, l’entertainment sta diventando uno dei “servizi” più importanti e richiesti. Il successo dei vari parchi a tema frequentati, come si sa, molto più dagli adulti che dai ragazzini, fa ben capire come anche il successo dei videogame sia legato a questa tendenza di permanenza delle attività  ludiche negli adulti. La presenza dei bambini è in realtà  spesso solo pretestuosa: sono gli adulti che vogliono “giocare”. Chi compra un videogame nel 70% dei casi è infatti un adulto.

Il videogame è uno spettacolo virtuale ma non passivo: non c’è voyeurismo. Non si guarda e basta: si agisce e si interviene. Si è interpreti e non comparse. E comunque si può cambiare lo stato delle cose e gli esiti finali delle storie. Il videogioco strumento di sfida, simulazione del pericolo, estrema sintesi del concetto di “avventura”. Avventura intesa come “adrenalina sotto controllo”, non pericolo vero ma il simulacro artificiale, anzi il surrogato, del pericolo.
Il concetto contemporaneo di avventura presuppone delle condizioni artificiali controllate entro le quali si può svolgere l’evento avventuroso, cercando di massimizzare gli elementi emotivi connessi e minimizzando al contempo quelli di pericolo o di disagio.
L’obiettivo insomma è quello de “la moglie ubriaca e della botte piena”. Estrema disperata e ineluttabile “necessità ” del nostro tempo e prototipo del desiderio collettivo contemporaneo: dopo il “tutto & subito” della società  del benessere ecco il desiderio morboso per ciò che è “impossibile” e/o “miracoloso”.

I videogiochi consentono, ancorché virtuale, la prosecuzione dello spirito di conquista (in barba a tutti i vari aspetti del cosiddetto politically correct, anzi il videogioco è un territorio “franco”, uno dei pochissimi rimasti, in cui non impera il politically correct a tutti i costi), tanto caro al pensiero ed alla tradizione occidentale; inoltre l’elemento ludico-immateriale rimane, anche dove le tematiche sono magari molto drammatiche, un punto caratteristico della natura dei videogame.
I videogiochi sono dei luoghi e dei momenti privilegiati dove (a proposito di psicologia e psichiatria) non solo non si muore per davvero, ma soprattutto dove si può uccidere, depredare, distruggere senza nessun senso di colpa. Si conquistano nuove galassie, mondi alieni, continenti perduti, e quant’altro la fantasia umana riesce ad immaginare, affinando partita dopo partita la propria abilità  nel combattere e sottomettere popoli, mostri, animali, macchine, ecc. ecc.
Dopo le grandi esplorazioni geografico-militari e l’avventura dello spazio i videogame rappresentano per l’Occidente l’ultimo modo per riaffermare lo spirito di aggressività  e di espansione che le è connaturato. E rappresentano inoltre anche una specie di vendetta postuma del colonialismo: siamo infatti di fronte una eclatante e robusta specie di “colonialismo virtuale”. Gli aspetti ideologici dei videogiochi, per quanto occultati, impalpabili ed evidentemente “involontari” rappresentano alla fine però un importantissimo fattore di successo. Essi sono diventati, come e più del cinema, simbolo e veicolo stesso del successo economico-militare-tecnologico dell’Europa e del Nord America. Un pezzettino, quasi una reliquia (con tutto il potere magico e taumaturgico delle reliquie) della straordinaria potenza planetaria di una civiltà.

Nei videogiochi inoltre è sempre possibile ripetere le esperienze un numero innumerevole di volte senza alcun inconveniente. Ciò è assolutamente fondamentale. Non importa ciò che accade, per quanto sia terribile, comunque si può ricominciare e chi è morto resuscita…
E’ una situazione che ricorda il mitico Walhalla nordico dove, dopo un giorno di furiose battaglie nelle quali ci si ammazzava senza pietà, l’indomani tutti di nuovo vivi ed in forma per altri duelli senza fine.
Nei videogame dunque “domani è (sempre) un altro giorno”, avviene cioè un’iniezione subliminale di ottimismo che, per certi aspetti, si potrebbe immaginare come una dose di prozac virtuale assunto quotidianamente da milioni di ragazzi e di adulti.
E del resto il gioco, proprio perché è sempre una prova reiterabile, diventa una fonte diretta di autostima: la ripetibilità delle situazione permette un apprendimento che, mano a mano, riduce ed elimina la frustrazione e consente, a differenza purtroppo della realtà, comunque il conseguimento dell’obiettivo voluto. Forse pensare allo schermo del computer o alla consolle domestica come a dei possibili alternative rispetto le tradizionali terapie antidepressive non è poi così fantascientifico. Insomma una specie di “sballo domestico” dove comunque le cose rimangono in qualche modo sotto controllo.

Il mondo dei giochi elettronici è semplice senza essere semplicistico, ed è in fondo l’idea di “mondo” che è più diffusa nell’immaginario collettivo occidentale (e giapponese).
In un certo modo questo universo sembra spesso molto più coerente di quello reale e paradossalmente ci si può trovare un ordine delle cose più rassicurante ed accettabile dove i malvagi sono puniti, i bravi premiati, e il valore e l’abilità “pagano”. E dove viceversa il denaro quasi non esiste e, quando c’è, è in forma favolosa di “tesoro”. Nei videogiochi (per fortuna, e forse è una delle ragioni per le quali piacciono sempre di più anche agli adulti) non ci sono banche, finanziarie, assicurazioni, imposte, scritture contabili, notai, uffici, burocrati, certificati, enti esattoriali, cambiali e bollettini di pagamento. In altre parole: uno dei rarissimi ed introvabili posti dove la sostanza vale più della forma. Non è poco…

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Antonio Riello è artista, ricercatore e docente. Vive e lavora tra Milano, Marostica ed Amsterdam. È “visiting professor” di “Fenomenologia del videogame” in varie Università ed Accademie. Ha così realizzato nel 1997 la prima opera d’arte italiana in forma di videogioco (“Italiani brava gente”).