Quali sono stati gli impulsi iniziali che hanno dato vita al progetto Romanae Antiquitates?
Romanae Antiquitates nasce dall’incontro di varie esperienze: l’impulso iniziale comunque si colloca nel periodo 2002-2003, quando l’amministrazione penitenziaria decise di effettuare dei lavori nella zona retrostante l’istituto per la costruzione di nuovi immobili. In occasione di quei lavori emersero tracce di vestigia romane che portarono al blocco con conseguente intervento della Soprintendenza. Da questo momento in poi si sono concentrati gli sforzi di ricerca ed analisi da parte di Eccom (Centro Europeo per l’Organizzazione e il Management Culturale). Sulla zona di Rebibbia hanno quindi cominciato a convergere le attenzioni di vari soggetti, tra questi la cooperativa Cecilia che, già  a partire dal 2001 aveva proposto dei laboratori per detenuti su Roma antica e in seguito ai ritrovamenti aveva poi proposto, tramite il suo referente Luigi Di Mauro, l’idea di un corso per operai archeologici sotto l’egida della Provincia di Roma. Tutti questi soggetti hanno poi dato vita al progetto del museo all’interno del carcere finanziato dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: la cooperativa Cecilia in qualità  di coordinatore del progetto, Eccom responsabile scientifico, la Soprintendenza nel suo ruolo istituzionale e l’istituto di pena di Rebibbia come padrone di casa.

Qual è secondo lei il significato di un museo all’interno dell’istituto?
Secondo me l museo impreziosisce decisamente Rebibbia ed è un piccolo grande segno totalmente dissonante rispetto ad un istituto di pena quale esso sia. Non ci si immagina un piccolo museo, una zona decorata e bella in un carcere. Questa dissonanza però altro non vuole che marcare l’appartenenza al territorio ed infatti dà  conto di questo, dell’area complessiva della tiburtina e non solo della zona retrostante l’istituto. In questo senso rivendichiamo un’armonia, una capacità  di sintesi come cifra del progetto.

In che termini si pone la questione della fruizione di uno spazio museale come è questo all’interno del carcere di Rebibbia?
Può sembrare strano, ma già  a partire da oggi la fruizione di uno spazio di questo tipo è molto elevata, sia perché fruita normalmente da centinaia di operatori che lavorano a Rebibbia -si pensi che nell’istituto lavorano 670 persone tra agenti di polizia, operatori civili, medici, infermieri, psicologi- a cui vanno poi aggiunti tutti gli altri che vi transitano, per esempio gli avvocati e magistrati. Certo aldilà  di quanti normalmente hanno a che fare con il carcere, si pensa di offrire alla comunità  civile esterna visite guidate organizzate. Del resto già  per tutte le iniziative che si fanno all’interno dell’istituto- rappresentazioni teatrali, convegni, dibattiti- si conta già  normalmente su un numero di circa tremila persone appartenenti alla collettività  esterna costituito da scuole, comuni cittadini ed istituzioni che andrà  a costituire il pubblico di questo museo. E’ molto probabile che si tratterà  di uno spazio museale molto più conosciuto, molto più visto di altri presenti in città , sicuramente molto belli ma meno fruiti in quanto meno conosciuti.

A quali strumenti di comunicazione fate ricorso o farete ricorso per il museo?
Non è ancora stato definito un vero e proprio programma, ma a partire da gennaio si comunicherà  il museo attraverso alcuni siti quali le news on line di giustizia.it e attraverso altri siti per la comunicazione on line degli operatori penitenziari. Saranno poi previste diverse modalità  di pubblicità  e di collaborazioni con il V Municipio con cui si organizzeranno visite guidate e visite didattiche con le scuole. In realtà  durante il corso dell’anno non si pone il problema degli ingressi alle varie iniziative promosse dall’istituto di pena, per cui il museo, data la posizione all’ingresso, diventa tappa obbligata per chiunque entri. Cercheremo di veicolare il museo anche facendolo rientrare all’interno di un progetto decisamente più ambizioso che prevede di coinvolgere la visita alle vestigia romane con altre forme d’arte utilizzate all’interno del carcere e che possono essere interessanti se associate al museo.

Come mai questa parentela stretta tra cultura, arte, creatività e l’istituto di Rebibbia che sembra distinguerlo anche da altre carceri?
Si tratta, a mio parere, di sensibilità che si incontrano. Noi operatori penitenziari e comunque chiunque lavori nella realtà penitenziaria, se intende investire sulla progettualità, su iniziative di ampio respiro, che coinvolgono anche le relazioni umane e che migliorano il livello delle relazioni fra detenuti ed operatori, oltre che fra detenuti stessi, deve puntare più in alto. E puntare in alto significa per noi lavorare con l’arte, con i diversi linguaggi artistici come teatro, musica e pittura. Queste sensibilità poi si trovano anche all’interno di un carcere e si sfruttano, come si sfrutta anche il trovarsi sul territorio di Roma che l’arte la fa piombare praticamente addosso.

Qual è il compito degli operatori che in un carcere intendono proporre un rapporto costruttivo con l’arte?
A chi ci lavora rimane il compito di essere accoglienti il più possibile e di offrire opportunità alle persone che hanno voglia di lavorare bene, di fare seriamente le cose. E’ facile essere affascinati dal mondo carcerario, ma è altrettanto importante rimboccarsi le maniche, avere la pazienza di lavorare in un contenitore come il nostro, per operare nel quale già si attua, per forza di cose, una sorte di selezione naturale.

Quali sono gli esiti di questa iniziativa che non vi aspettavate, che vi hanno colto di sorpresa?
Sin dall’inizio ciò che ci ha stupiti, e che meriterebbe senz’altro di essere indagato meglio, è l’entusiasmo delle persone, l’entusiasmo dei detenuti che hanno lavorato sia nei laboratori su Roma antica, sia nel corso per operatori archeologici e durante la costruzione del museo. Questo entusiasmo forte e sincero da parte di persone che stavano facendo una cosa che piaceva loro fare ci ha molto stupito all’inizio. Adesso è un dato aquisito.

Premesso che la cultura può costituire processo attivo per il reinserimento degli ex detenuti, avete già registrato effetti positivi in questa direzione?
Si tenga presente che già la cooperativa Cecilia si è adoperata per la costituzione di una piccola società che lavorerà in questo settore e che assumerà detenuti. E’ una realtà che speriamo possa crescere. Quello che si tratta di fare è costruire nel tempo una struttura che progressiamvente si occupi di fare formazione e che sforna questo tipo di professionalità. Certo non si parla di numeri enormi, nè di avere legioni di detenuti che si dedicheranno al restauro, ma è comunque una strada che ci sembra buona.

Il museo all’interno di un carcere è secondo lei un modello replicabile?
Assolutamente sì.