Nel 1824 re Carlo Felice acquistò una raccolta di reperti dal canavesano Drovetti che permise alla capitale del piccolo regno sabaudo di vantare il primo vero Museo Egizio al mondo. “Per importanza secondo solo a quello del Cairo” è la frase diffusa che ricorda il valore del sito, ancor oggi universalmente riconosciuto.
Eppure, per lunghi anni, l’istituzione ha sofferto la pesantezza della macchina statale, producendo risultati irrisori rispetto al potenziale.
Fino all’ottobre 2004 il museo dipendeva direttamente dal Ministero. Poi, causa l’inefficiente gestione diretta, ci si è trovati di fronte a quello che in Italia viene considerato un vero e proprio azzardo: per la prima volta un grande museo diventava Fondazione. Quel che prima era in mano allo Stato, per proprietà e gestione, passava sotto il controllo di un soggetto giuridico privato, formato anche dagli Enti Locali e dalle due Fondazioni di origine bancaria con sede a Torino (Fondazione CRT e Compagnia di San Paolo).
La partnership intende realizzare una gestione più efficiente e dinamica, in grado di attrarre risorse finanziarie non solo dallo Stato, ma anche dalle amministrazioni locali e dai privati. I nuovi soggetti vengono direttamente coinvolti in un progetto di valorizzazione che mette in primo piano la fruizione dell’immensa collezione; la tutela rimane in mano alla statale Soprintendenza.
Il passaggio è reso possibile grazie a successive disposizioni legislative e in particolare quelle intervenute tra il D.L. 368/98 (che permetteva la possibilità di conferire beni culturali demaniali ad associazioni, fondazioni e società ) e il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che, entrato in vigore cinque mesi prima della costituzione della Fondazione, dava impulso alle partnership pubblico-private, sottolineando che la tutela del patrimonio restava appannaggio dello Stato.
Tuttavia, a differenza di molti “cugini” europei, la Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino non prevede né un direttore amministrativo né altre figure manageriali. L’eredità della vecchia gestione, inoltre, è rintracciabile negli enormi costi (il 76% sul totale) destinati alla copertura del personale. Il passaggio da un museo statale antico, non solo nel nome, a una macchina efficiente è ancora lontano dal compiersi. Immaginare che questo modello possa essere d’esempio, astraendo però dalle peculiarità del contesto, significa commettere un errore. Le differenze storico-culturali nazionali ispirano diverse modalità di gestione e di organizzazione non riducibili l’una all’altra.
Rispetto agli Stati Uniti, in Europa prevalgono modelli basati sul settore pubblico, data la preponderante responsabilità statale nelle politiche culturali: secolare (Francia, Germania, Austria, Paesi nordici) o più recente, come nel caso britannico. A metà tra il modello continentale centralizzato e quello statunitense, lo schema britannico prevede organizzazioni not-for-profit che si occupano in modo privato di finalità pubbliche. La governance degli istituti museali è affidata a organi collegiali privatistici, i Board of Trustee, fondati sul concetto di Trust della legislazione anglosassone (basata infatti sulla proprietà privata). Il British Museum possiede persino una società (quindi for profit) con il compito di accrescere i fondi a disposizione del museo, per lo più provenienti da contributi comunque governativi. All’estremo opposto, la Francia. Lo storico accentramento del potere politico è riflesso anche nel suo sistema museale.
Eppure sembra di assistere non alla creazione di partnership con il privato (come all’Egizio), ma alla traslazione delle sue buone pratiche al settore pubblico. Come sta accadendo al Louvre che è in procinto di clonarsi all’estero. Morale: a ciascuno la sua evoluzione con uno sguardo, possibilmente critico, alle best practices altrui.

Riferimenti:
www.museoegizio.it
Sulla Fondazione Museo Egizio (Aedon, 2003) www.aedon.mulino.it/archivio/2003/2/foa.htm
Un articolo sull’assetto delle Fondazioni per la cultura (Liuc papers, 2005) www.biblio.liuc.it/liucpap/pdf/175.pdf