Il futuro del sound design potrebbe essere nella biotecnologia. Le possibilità sono svariate, dalla modifica delle corde vocali del cane di casa (con grande soddisfazione dei vicini) alla sintetizzazzione di un pelo di gatto, che accarezzato per il verso giusto emette un tappeto sonoro particolarmente rilassante, a piccoli amplificatori collegati ad un midi che trasformano il flusso linfatico delle piante in suoni.
Nel 2003, presso la Galleria Lieu Unique di Nantes si è tenuta una delle prime mostre di arte biotecnologia: “L’art biotech” curata da Jens Hause. Da allora il tema è stato ampliamente discusso e riproposto in diverse varianti. L’arte biotech, tra modificazione genetica e riprogrammazione cellulare, raggiunge la radice filosofica del processo creativo e cioè, da un lato l’imitatio naturae di cui parlava il Vasari, e dall’altro l’emulazione del potere divino su cui si sono soffermati tanti teologi.
Con la Land Art degli anni ’60, contenuti ecologistici ed esperienze di architettura sociale hanno provocato nuove interazioni consapevoli con il paesaggio, in cui l’artista opera in una dimensione che supera la limitatezza della percezione umana, e interagisce con il Tempo e i fenomeni atmosferici, con la varietà di un ambiente non predisposto, e con la mutevolezza dell’esistente. “Il paesaggio è un orizzonte biologico per l’esercizio di una creatività , la cui vocazione non è tanto quella di produrre un’innovazione ispirata dalla tracotanza della tecnica, quanto quella di introdurre una trasformazione consonante con la specificità della vita”. Da questi presupposti arrivare ad una forma d’arte, che è in grado di agire sul livello biologico infinitamente piccolo, è stata solo una questione di tecnica. L’appuntamento di Nantes ha conclamato l’esistenza di una bio-art, un’arte organica/biologica/biotech, che segna l’incontro tra scienza e rappresentazione, in cui l’apporto estetico e simbolico dei manufatti e delle installazioni serve a esorcizzare la ubris, l’atto di presunzione contro gli dei e contro la ”˜Creazione’, di cui tutti sentiamo il peso. Utilizzare creature viventi per produrre opere d’arte, era già nel cuore dell’estetica decadente. Chissà cosa avrebbe pensato di questa definizione il duca Des Esseintes, protagonista del romanzo Au rebour di Huysman. Meditando di sostituire la volgarità della vita reale – che, grazie al metodo Pasteur, ricavava da “volgari vinacce”, vini pregiati – con la potenza del suo immaginario, Des Esseintes, sostituiva alla sofisticazione industriale, il sofisticato intellettuale ed estetico posizionando gabbiette d’argento tintinnanti nell’alcova, e lasciando deambulare nel suo studio una tartaruga viva e tempestata di pietre preziose en pendant con il tappeto.
Utilizzare creature viventi per modificare un ambiente non è, a ben guardare, un concetto nuovissimo, pensiamo a quelle sublimi realizzazioni arabe di giardini concepiti con alberi da frutto e fontane per attirare uccelli canterini in modo da avere sotto le finestre di casa un paesaggio sonoro di gorgoglii di fontane e cinguettii. L’abitudine ancora invasa di tenere canarini e cardellini in gabbia, quasi una produzione sonora on demand è ancora molto in uso nei paesi del sud.
Il mondo dei suoni gioca d’anticipo sull’arte. Se chiediamo ad un musicista cosa pensa dell’arte organica resterà perplesso: la musica è organica. A partire dagli strumenti. Fatti di materiali naturali – pelle, legno, osso – gli strumenti non sono viventi, ma evocano in sé un vivente. I miti greci raccontano questa relazione nel racconto del Satiro Marsia e della terribile evocazione della cornamusa, o nella creazione del flauto di pan dal corpo trasformato della Ninfa Sirynx. Nel suono degli strumenti musicali c’è un anima e una personalità evocativa talmente potente che, in molte culture, si crede che il suono del tamburo possa far rivivere ciò che è morto. Ma oltre il mithos la musica è organica da un punto di vista biologico. Essa condivide con gli altri viventi due caratteristiche: possiede una struttura simmetrica o ellittica e ha bisogno d’aria per esistere.
Le implicazioni della Arte Organica sono, tuttavia, molto più ampie. E se vogliamo considerare quali contributi può portare la musica alle tematiche proposte dalla bio/tech art dobbiamo partire dalla definizione di George Gessert: “La bioarte è quell’arte che è viva o che è composta da elementi viventi. Non tutta la bioarte coinvolge le biotecnologie o le modificazioni genetiche. La bioarte comprende alcune forme di arte ecologica e di Land Art. L’Arte che rappresenta o simula la vita non è bioarte: le simulazione al computer dei processi genetici, dell’evoluzione, della crescita di piante, sono simulazioni della vita e non cose vive, dunque non sono bioarte”.
Ecco che a questo punto si delineano diversi contenuti possibili. C’è una musica che si dice organica perché si autogenera, un’altra perchè fa riferimento al paesaggio sonoro, un’altra ancora è quella che si oppone al concetto di industriale, e c’è poi una musica che pur senza autodefinirsi è quella che più si avvicina alla ricerca che in questi anni la bioarte sta portando avanti. Una musica che, in sintonia con la definizione di Gassert presuppone da un organismo vivente, ponendo interrogativi essenziali sulla connessione strutturale tra l’essere umano e le altre essenze dell’universo.

Riferimenti:
http://www.genomicart.org/
http://www.ekac.org/index.html
http://www.noemalab.org/mediaversi/index.php?option=com_content&task=view&id=70&Itemid=34