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Intervista a Jens Haaning

Come hai progettato e avviato il workshop con i giovani artisti di Networking 2007 “Integration and Conflict” ad Arezzo?
Di solito non arrivo nel posto dove devo realizzare il lavoro con un progetto definito. Le suggestioni, il confronto e lo scambio con il luogo e in questo caso con i partecipanti, hanno determinato la direzione del nostro lavoro e i modi e le forme con le quali il workshop si è relazionato alla città di Arezzo.

Hai fatto varie esperienza di questo genere rivolte alla formazione dei giovani artisti. Che ne pensi di questo tipo di relazioni?
Le relazioni con gli studenti, gli scambi culturali e le occasioni di confronto che si creano durante i workshop e durante le ore di insegnamento all’accademia rappresentano uno stimolo importante per la crescita del mio lavoro. Per svolgere un’attività di questo tipo è necessario sapersi porre di continuo in una posizione di autocritica ed essere pronto a rimettersi in discussione anche con un pubblico di giovani. Questo ha delle ricadute molto positive sull’evoluzione delle mie opere e sicuramente aiuta a non compiacersi troppo dei propri risultati.

Nella tua opera Redistribution (London-Karachi) (2003) hai inviato le sedie dell’Institute of contemporary art di Londra a Karachi lasciandole in una piazza della città . Minoranze, marginalità , integrazione, sono termini centrali all’interno del tuo lavoro. Dal tuo modo di affrontare questi argomenti emerge una forte critica al sistema sociale occidentale.
Credo che uno dei punti più deboli della civiltà occidentale sia l’incapacità di scambio e di comunicazione con gli altri: con altre civiltà ed economie, con persone di diverso colore di pelle, diversa religione e ideologia. Con le mie opere cerco non solo di affrontare singolarmente argomenti di questo tipo, che si riferiscono a situazioni di tensione presenti a livello sociale ma di creare un punto di vista dal quale guardare i processi di inclusione ed esclusione in occidente.

I tuoi lavori coinvolgono direttamente o indirettamente le persone con le quali hai lavorato o che sono state a vario titolo interessate dai progetti. Con la tua opera Flag production (1996) hai trasformato il Museo d’arte contemporanea di Bordeaux in un sito di produzione di bandiere di Stati immaginari, dopodiché hai esposto le bandiere sui balconi della città . Quali sono le reazioni nei confronti delle opere che ritieni più interessanti e che possono a loro volta far sviluppare il lavoro in maniera inaspettata?
Esistono vari tipi di reazioni. Quelle che le persone manifestano attraverso il loro linguaggio e quelle che la gente non riesce ad esprimere non essendo in possesso di un codice appropriato. D’altra parte, mi interessano non solo le reazioni spontanee provocate dall’esperienza che le persone fanno delle mie opere, ma anche quei pensieri, quei processi e quelle sensazioni che si attivano, per esempio, a distanza di un mese o due anni dall’esperienza stessa.

Sembra che il tuo lavoro sia animato da una necessità di condivisione intesa non solo in termini di coinvolgimento del pubblico, ma anche come atteggiamento necessario alla realizzazione dell’opera. Cos’è che ritieni importante in questo tipo di esperienze?
Ho sempre privilegiato una riflessione complessa, che possa riguardare sia gli aspetti formali dei mezzi, che come artista utilizzo, sia il contesto socio-politico all’interno del quale lavoro. I due momenti sono entrambi necessari a realizzare quel particolare punto di vista che, come dicevo, permette di rileggere le complesse dinamiche che riguardano la possibilità di pensare l’altro a partire dalla condizione di occidentale.