confine2Intervista a Franco Del Campo, presidente del Corecom Friuli Venezia Giulia.

Come è nata l’idea di “microstorie affollano il confine” e quali sono state le tappe evolutive del progetto?
Tutto è nato da una confluenza di storie e di proposte che si sono incrociate e poi sviluppate. Noi, come Comitato Regionale per le Comunicazioni, da tanto tempo svolgiamo un’opera di promozione della comunicazione transfrontaliera soprattutto attraverso la televisione. La  proposta di coinvolgimento in un progetto artistico sul tema, da parte di Massimo Premuda e Roberta Cianciola, è stata accolta, quindi, con molto entusiasmo, avendo il Corecom già lavorato con artisti di strada ottenendo soddisfacenti risultati.
L’opportunità si è dimostrata un “trampolino di lancio” verso qualcosa di innovativo sia sul piano artistico, sia su quello comunicativo ed istituzionale.
Svolgendo da anni compiti riguardanti il controllo, l’autorità e la garanzia sulle comunicazioni a livello regionale, i due artisti  si sono rivolti consapevolmente al Corecom con un progetto che rispecchiasse il nostro storico impegno in quest’area di confine. Ne è nata così un’iniziativa che ha visto la partecipazione nostra, degli artisti e delle popolazioni, in maniera concertata ma autonoma, concedendo ad ognuno di apportare il proprio contributo.

Con quali aspettative è stata intrapresa l’iniziativa e perché l’esigenza di un evento di comunicazione transfrontaliera mediante il linguaggio dell’arte?
Questa iniziativa è per certi aspetti una deviazione dai percorsi tradizionali delle attività che il Comitato Regionale per le Comunicazioni svolge normalmente, ma credo sia una deviazione positiva, un tentativo nuovo che alla fine si è rivelato avere degli effetti sostanzialmente molto positivi.
L’arte in generale è comunicazione, e quella che i nostri artisti hanno proposto è un’arte relazionale, quindi un contatto diretto con il pubblico, che in questo modo diventa protagonista di tutte le attività che si svolgono attraverso le proprie testimonianze, i propri visi e le proprie interazioni arrivando a raccontare in maniera disinvolta ciò che si pensa. Tutto questo è stato fatto in una situazione territoriale e storica assolutamente eccezionale e fuori dalla convenzione, di cui probabilmente tanta parte dell’Italia non è neanche a conoscenza.
È noto che in queste zone si sono disputate  le due guerre mondiali terribili. Aspetto meno risaputo  è che dopo la Seconda Guerra Mondiale, la dolorosa esperienza della cortina di ferro ha portato a definire due sistemi alternativi e conflittuali che si sono via via confrontati: sia da una parte che dall’altra del confine, si sono sedimentate storie assolutamente drammatiche, memorie che sono rimaste indelebilmente lacerate. Oggi, grazie all’Europa, agli accordi di Schengen, grazie al trascorrere del tempo, allo sviluppo economico e grazie anche al fatto che le persone continuano, nonostante tutto, a comunicare, si è concretizzata la desiderata abolizione di quello che ha rappresentato per anni uno dei confini più difficili d’Europa. Ed è in questo contesto che si è voluto indagare, interrogando gli abitanti, ma anche interrogandoci come ente territoriale, per capire cosa è successo nell’immaginario di tante persone, e cosa succederà nel futuro più prossimo, in cui le istanze storiche sono ormai mutate radicalmente.

Il progetto ha visto interessati numerosi soggetti del territorio di confine nei contorni del Rabuiese, dalle amministrazioni locali alla cittadinanza, agli artisti stessi. Qual è stata la risposta da parte di tutti coloro che sono stati coinvolti?
Le risposte ottenute dai diversi soggetti coinvolti nell’indagine sono state molto soddisfacenti. Il tema del confine è stato definito attraverso differenti livelli di espressione.
Dal punto di vista artistico è stato realizzato un video, sia in italiano che in sloveno, in cui le popolazioni al confine sono protagoniste assolute, reciproche minoranze cresciute con il “confine dentro”, che portano alla luce il significato intrinseco legato al nostro territorio, caratterizzato da una stretta vicinanza con l’altro e, conseguentemente, da una prospettiva più vicina all’Europa rispetto al resto d’Italia.
Oltre all’aspetto artistico si è poi curato quello sociologico, attraverso un’indagine condotta dall’istituto di ricerca SWG, affiancando la dimensione artistico-emozionale e fornendoci delle risposte più precise rispetto ai riscontri ottenuti con l’arte.
Per quanto riguarda poi il terzo livello, quello delle istituzioni e dei rappresentanti del territorio, c’è stata una relativa partecipazione nel momento della presentazione del progetto, che è andata però scemando, purtroppo, nel momento della presentazione dei risultati, che a mio avviso sono invece di grandissimo interesse. Essi vanno infatti ad interpretare una situazione completamente nuova, dal punto di vista sociale oltre che politico, che le amministrazioni locali non sembrano aver colto appieno, rinunciando così ad una riflessione che poteva essere veramente collettiva e che sarebbe potuta essere ancora più positiva, più propositiva e anche di prospettive più ampie per il futuro.

Pensa che l’arte pubblica sia uno strumento utile di sensibilizzazione sociale ai temi che l’agenda politica propone?
L’arte pubblica mi sembra uno strumento utilissimo per la rappresentazione di ciò che accade intorno a noi. Nonostante abbia scoperto questa forma di arte solo di recente, sono rimasto stupito dagli effetti che essa può avere sul territorio e su coloro che quel territorio lo vivono quotidianamente.
Una percezione superficiale del territorio porta a considerare solo le apparenze e rimane confinata a ciò che si vede camminando per strada quando, alzando gli occhi, si vede un manifesto che all’apparenza sembra un mero messaggio pubblicitario, ma che in realtà nasconde un significato completamente diverso, totalmente nuovo.
Credo fortemente che sia importante, soprattutto in tessuti urbani che rischiano di diventare sempre più distratti, sempre più alienati, sempre più abituati alla quotidianità, valorizzare questa forma di arte. Capita sempre più spesso, infatti, di vivere e di muoversi in città bellissime dimenticando però di alzare lo sguardo per guardare pezzi di città , pezzi di architettura che sono sempre stati là e di cui noi purtroppo non ci siamo mai accorti. Ecco che quindi l’arte pubblica può rappresentare un elemento di stacco, di riscoperta e di sorpresa rispetto alla nostra quotidianità.

Le “microinterviste” alla popolazione sono state integrate da una ricerca condotta da SWG e da riprese video realizzate in collaborazione transfrontaliera con la Rai FVG e Tele Capodistria. Il 19 settembre si è tenuta la conferenza di presentazione della ricerca-evento. Quali sono stati i risultati ottenuti?
È bene chiarire che i dati raccolti rappresentano una tendenza fondata su comuni percezioni, danno indicazioni sullo stato dei rapporti, per certi aspetti più profondi e meno indagati, di popolazioni che erano abituate a vivere su un confine che ora è diventato invisibile. Non sono certo verità assolute ma elementi di interpretazione utili.
Durante la conferenza di presentazione del 19 settembre vi sono stati diversi momenti di confronto e di approfondimento che hanno visto protagonisti uomini e donne italiani e sloveni.
Interessante è stato l’accostamento di due uomini: essendo entrambi di nazionalità italiana ma rappresentando contemporaneamente due diversi stati d’animo – l’esule e il rimasto –  ci hanno permesso di confrontare due memorie storiche molto simili, e parallelamente molto differenti. Uno di loro, infatti, è tra coloro che negli anni Cinquanta è scappato dall’allora Jugoslavia per rifugiarsi a Trieste, mentre l’altro rappresenta colui che non ha mai voluto abbandonare il territorio triestino.
Una regista slovena che opera in Italia, a Gorizia, e una storica italiana di lingua slovena che insegna invece a Lubiana, sono stati casi ulteriori di approfondimento delle tematiche legate al territorio transfrontaliero
Solo successivamente si è dato spazio al coinvolgimento all’iniziativa in termini numerici, anche questi di grande interesse se valutiamo il territorio entro i quali sono stati raccolti. Trieste ha infatti accumulato nel corso degli anni dolori ed odi profondissimi, soprattutto durante la Seconda Guerra Mondiale.
Le vicende legate alla Risiera di San Saba, l’unico campo di sterminio nazista in Italia, o l’incubo delle foibe, o ancora l’occupazione iugoslava, con migliaia di persone scomparse o massacrate per processi sommari di repressione etnica o politica, hanno alimentato rancori che per anni hanno reso difficile ogni tipo di dialogo.
Partendo da queste realtà terribili, di cui si sa poco e che molto spesso sono lasciate alla tradizione orale locale, abbiamo dei dati che attestano come questo passato sia stato finalmente metabolizzato, perché con la caduta del confine e la nuova dimensione europea in cui Italia e Slovenia fanno parte entrambi dell’Unione Europea, l’81% degli italiani e l’80% degli sloveni si dicono favorevoli al processo di integrazione e alla caduta permanente delle frontiere.
La percezione dell’uno e dell’altro rimane infatti sostanzialmente positiva. Permangono comunque delle paure residue in entrambi i fronti. Citerei ad esempio, come campione curioso ma interessante, quello degli sloveni, con un 64% che si dice impaurito, con la caduta della frontiera, da un possibile incremento della criminalità, della droga e della prostituzione. In realtà chi vive in Italia, pur conoscendo questi problemi, non ne è così spaventato quanto lo sono gli sloveni. La mia interpretazione è che questi ultimi, a contatto con i nostri mass media, percepiscono l’inquietudine esistente nella società italiana rispetto a questi temi, rimanendo contagiati e assorbendo il sentimento allarmista che, la tv in particolar modo, esalta a dismisura.

Leggi l’intervista sul progetto fatta agli artisti