eticaMarketing etico, etica d’impresa, economia della felicità sono temi di discussione frequenti in questi ultimi anni, al centro di un dibattito sul ruolo e sullo sviluppo della CSR, delle sue modalità di azione, delle sue strategie e della sua profittabilità.
Osservare come si è sviluppato il rapporto tra private sector e third sector fuori dai nostri confini nazionali amplia il dibattito in corso e prospetta un utile luogo di confronto e di riflessione per futuri sviluppi nel nostro Paese. In particolare il contesto anglosassone può costituire una proficua piattaforma per riflettere sul marketing etico e valutarne l’efficacia. Infatti, a differenza dell’Italia(1), in Gran Bretagna il terzo settore costituisce un settore oramai consolidato, con una lunga tradizione e con notevole prestigio e influenza sulla società civile. Qualunque azienda inglese, di qualunque dimensione, si deve confrontare con la costruzione e la cura di un profilo etico e si deve relazionare con il fundraising delle organizzazioni non governative.
In territorio anglosassone la CSR si configura come un contenitore che include differenti e vari modi di realizzazione, di cui il semplice e diretto aiuto finanziario è soltanto un aspetto. Il fare beneficenza sotto forma di denaro si sta anzi sempre più accantonando in favore di strategie di intervento più coinvolgenti e rappresentative, che favoriscono la costruzione di un’immagine etica distintiva, riconoscibile, il più possibile pubblica e pubblicizzata. Innanzitutto, una strategia anglosassone di marketing etico è la scelta di sostenere un numero ridotto di charities(2) (tre o quattro o anche soltanto una) e fidelizzarsi a queste, creando una partnership duratura e stabile. In questo modo l’azienda, nazionale o multinazionale, si rende riconoscibile come legata a una determinata associazione e, attraverso questa, a uno specifico settore di intervento umanitario o filantropico. Qualunque siano i criteri di scelta della Ong, questa strategia produce un effetto estremamente chiaro: l’azienda, accoppiandosi specificamente a una Ong e riservando a essa la propria beneficenza, si costruisce un’immagine chiara, coerente e distintiva. Questa strategia funziona attraverso una gestione della CSR estremamente strutturata e uniformata a livello centrale. Per esempio, la catena inglese di supermercati ASDA supporta l’organizzazione internazionale The Salvation Army e questa scelta è tenuta come regola della loro politica di gestione dei fondi di beneficenza, senza eccezioni, escludendo aiuti e supporti temporanei o occasionali ad altri progetti o altre ong.
Anche quando la compagnia privata non ha una distintiva partnership, la modalità di beneficenza è comunque strutturata e studiata. Gli aiuti e il sostegno sono con precisione suddivisi in compartimenti del no profit: ambiente, ricerca, salute, paesi in via di sviluppo, comunità locale.
Tale specializzazione della beneficenza delle corporates è ancora più evidente nella politica dei grants. È l’azienda stessa che bandisce un concorso per dare fondi, sotto forma di grants (premi), alle Ong, e assume un ruolo attivo scegliendo le caratteristiche del progetto da sostenere. L’azienda, prima di donare, richiede quindi di essere informata sulla qualità della beneficenza, di essere partecipe e lo esplicita come aspetto del proprio profilo etico.
Con questa strategia, la beneficenza è ancora più strutturata e controllata: da una parte, l’azienda può meglio controllare il buon uso del proprio denaro donato e, al tempo stesso, può promuoversi con efficacia, comunicando interesse e partecipazione. Diventa così più formalizzato e professionalizzato il rapporto tra settore privato e terzo settore: quest’ultimo ha addirittura creato delle specifiche figure professionali che si occupano appositamente di questo problema(3), il Trust Manager, o il Grants Manager, che curano i rapporti con le aziende informandole dei propri progetti e preparano le domande per ottenere grants. Inoltre, molto spesso le aziende si impegnano anche nel monitoraggio del progetto.
Sempre più quindi non si tratta di dare solo denaro, bensì interesse, partecipazione, competenze, sostegno professionale e tecnico.
Va sottolineato che l’immagine etica non sarebbe a tal punto efficace se l’azienda inglese non dedicasse cura e attenzione alla dimensione informativa e comunicativa della propria responsabilità sociale, servendosi di vari strumenti e supporti, primo fra tutti il web, ma anche la pubblicità commerciale. Le informazioni sulla responsabilità sociale vengono presentate con completezza e trasparenza, creando così un effetto di coerenza e credibilità.
Conseguentemente, questo favorisce la costumer loyalty, che strategicamente va a fondarsi su una base etica per il consumatore. Queste strategie del marketing etico britannico fanno riflettere se confrontate con il panorama italiano.
Se si visitano le sezioni web aziendali dedicate alla CSR si può osservare come più aziende italiane, di varie dimensioni, non abbiano un piano unificato e chiaramente strutturato delle loro azioni umanitarie e quello che ne risulta è un’immagine etica debole e di scarso impatto sull’utente che vuole saperne di più. Per esempio, in Italia il rapporto dell’azienda (per quanto riguarda franchising, cooperative, multinazionali) con il no profit, il suo coinvolgimento, la scelta di come e quanto donare, è spesso gestito in modo decentrato e delegato agli associati nel territorio(4). Al contrario, come si è detto, in Inghilterra questo aspetto della propria immagine è coordinato e gestito dalla sede centrale, che stabilisce una politica uniformata in tutto il territorio e tra tutte le sedi (si parli di una catena di birra, o di supermercati, o di cosmetici), creando, in questo modo, un’immagine etica coerente e ben delineata.
Inoltre, a differenza delle aziende britanniche, non sempre le compagnie italiane “specializzano” la loro azione di beneficenza. Si può ancora osservare che parte del settore privato tende a uniformare e realizzare la propria beneficenza entro la propria logica economica, quella del diretto aiuto finanziario in denaro. Da questo emerge la differenza più significativa e più interessante. In Inghilterra, è la stessa azienda che si delega il trasformare il denaro da donare in messaggi di partecipazione, in cooperazione, in progetti di intervento, in promozione della ricerca.
Si può così interpretare questo atteggiamento: è l’azienda stessa al proprio interno a cambiare la propria logica dell’agire, e ad aderire a quella del settore no profit. Si può dire che, nella gestione della propria CSR, abbonda la propria logica economica, quella del profitto, che coinvolge il denaro, per passare a una logica altra, quella del “non-profitto”, che si basa sul coinvolgimento, sulla partecipazione, ovviamente sempre con specifici obiettivi di business. Questo produce un’immagine etica più credibile, meno attaccabile e stigmatizzabile, proprio perché gli interessi di marketing e la profittabilità sono superati, o che dir si voglia oscurati, da altri valori che sono accolti all’interno del settore privato stesso.
Oramai le aziende che si distinguono (in modo negativo) sono quelle che non fanno niente, o meglio niente di chiaro e visibile, per il no profit, invece di quelle impegnate. La filantropia costituisce per le aziende britanniche una strategia di marketing non solo obbligata, ma forse anche la più efficace, per ottenere la fiducia, e il credito, dei propri clienti e per essere inserite il più possibile nel tessuto sociale.

Nota: La versione integrale di questo articolo è pubblicata in www.ticonzero.info

 

Note:
1 In Italia è negli ultimi anni che il terzo settore ha conosciuto un rilevante sviluppo e impatto sociale ed economico.
2 Il termine charity non ha un termine corrispondente in italiano. È un termine-ombrello che si riferisce ad associazioni, onlus, ong, di varia natura, struttura e contenuto, che sono accomunate dall’agire senza scopo di lucro e dal vivere e lavorare sulla base di opere (di vario tipo) di beneficenza.
3 Questo anche in virtù del fatto che il corporate fundraising delle ong verso le aziende si basa sempre più sulla politica dei grants.
4 Per esempio, più di una catena italiana di supermercati lascia gestire alle proprie succursali o associati la beneficenza dei clienti e ciascuna filiale può creare e impegnarsi diversamente in attività di raccolta fondi o in cooperazione