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Un seminario dal titolo “L’arte contemporanea oggi: prodotto artistico o prodotto finanziario?” poteva sembrare ambizioso, ma alla fine i protagonisti delle relazioni lo hanno addomesticato e scandagliato con grande maestria.
Un’Aula Magna gremita e silenziosa ha seguito i due interventi di Moses, uno degli inventori dell’Indice Mei-Moses, indice utilizzato in tutto il mondo per monitorare il trend del mercato dell’arte contemporanea, e Franesi, Direttore della NY Biennale d’arte di New York. Il primo ha evidenziato come il trend dei grossi investimenti nel settore dell’arte risale già almeno agli anni ’50, e riguardava per lo più quotazioni in arte moderna. Per la verità, sino a qualche tempo fa, l’arte era considerata al più un bene rifugio, al riparo dalle oscillazioni dei mercati dovute alle crisi petrolifere, e appannaggio, se non di intenditori, quanto meno di amatori ed estimatori dai grossi patrimoni, in grado di poter gestire trattative spinose e mercati privi di regole, spesso al ribasso, per quanto, alle volte, forieri di vertiginose, sorprendenti – almeno apparentemente – impennate, tutte da cavalcare.
I grandi mediatori tra la domanda e l’offerta sono le case d’asta Christie’s e Sotheby’s in primis.
Analizzando le aste dal 1875 ai giorni nostri il duo Mei-Moses ha analizzato gli indici di rischio e di rendimento dei vari segmenti di mercato, dall’antico al moderno, dagli impressionisti al post war.
Venendo alla domanda “Arte contemporanea: prodotto artistico o finanziario?”, Moses ha offerto una disamina decisamente univoca su chi convenga puntare: Damien Hirst, Jeff Koons, Cindy Sherman, Tracy Emin e l’ormai insuperabile – in fatto di incremento e guadagno – Andy Wahrol, ma anche gli altri pop-art (Lichtenstein, in primis), Keith Haring, post-war e very-contemporary art, fra cui in impennata i giovani indiani e cinesi: in assoluto, questi ultimi, la prima generazione appannaggio innanzitutto di economisti e finanzieri, e in secondo luogo di galleristi e professionisti del settore.
L’arte contemporanea deve far parte del portfolio degli investimenti, ha precisato il Prof Moses, evidenziando un dato che spesso rimane in ombra: le perfomance migliori le hanno i cosiddetti emergenti.
Qui si è catapultato Pietro Franesi, evidenziando i dati di tre mercati dell’arte contemporanea: Cina , Russia ed India.
Aumenti di fatturato delle vendite del 15.000 % con un rialzo dei prezzi sul 2002 di quasi 3000%. Basta vedere la top ten dei maggiori collezionisti al mondo per accorgersi che nella classifica sono entrati un ucraino, un messicano, una indiana, un russo ed un cinese. Nuovi protagonisti che sorgono dalla nuova geografia della ricchezza globale e dal formarsi di un casta plurimiliardaria che sovverte gerarchie stantie.
Due sono state le date che hanno scandito la nuova era dell’arte contemporanea:
16 settembre 2008: da Sotheby’s Damien Hirst ha venduto per 200 mi di dollari superando di 10 volte a somma record all’asta di un singolo artista. Si è rotta la catena distributiva artista-galleria-collezionista.
25 aprile 2009: il magnate dell’acciaio ucraino Victor Pinchuk inaugura a Kiev il suo multimiliardario centro per l’arte contemporanea, progettato da Philippe Chiambretta, facendo intendere al mondo intero che il nuovo collezionista è l’attore principale della nuova storia dell’arte. La conclusione è logica: si va verso una privatizzazione dell’arte contemporanea, i nuovi principi hanno trovato nell’arte contemporanea il passaporto per essere riconosciuti come personaggi globali , non solo nazionali.
Infine Pietro Franesi ha evidenziato Il superamento del concetto della riproducibilità e la supremazia del processo creativo sull’oggetto. Entrambi essenziali per ridefinire i connotati dei nuovi artisti su cui investire. Occorre superare l’attuale PROZART, un miscuglio tra un a edonismo fino a se stesso e la sacralità del potere, favorendo quegli artisti giovani e maturi che fanno della ricerca il loro faro d’orientamento.
Uno scenario che ha incantato la platea e che pone nuovi ed intriganti interrogativi sull’arte e che ne ripropone la centralità.
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