Intervista a Pompeo Martelli – direttore scientifico del Museo Laboratorio della Mente di Roma.

mlmIl Museo Laboratorio della Mente ripercorre la storia del complesso ospedaliero Santa Maria della Pietà di Roma, dalla sua fondazione alla definitiva chiusura per raccontare il disagio e la diversità, per combattere lo stigma e promuovere la salute mentale. Dott. Martelli, come mai si è deciso di sviluppare un progetto così particolare?
Il Museo Laboratorio della mente è nato ufficialmente nel 2000, partendo da un progetto immaginato di natura diversa: a seguito dell’entrata in vigore della Legge 180 del 1978, i manicomi non vennero automaticamente chiusi, ma, per molti anni, all’interno di queste strutture, continuarono a viverci pazienti e a lavorarci operatori sanitari; nello specifico, l’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà è stato definitivamente chiuso solo nel 1999, a seguito di un importante provvedimento adottato dal Ministro della Sanità, Rosi Bindi . Il Ministro decise delle penalizzazioni per le Regioni inadempienti imponendo ai manager delle Aziende Sanitarie Locali il completamento del processo di chiusura degli ex manicomi con la definizione di un nuovo Progetto Obiettivo sulla salute mentale.
A quell’epoca, consapevoli della portata del progetto di chiusura della struttura e dell’importanza della conservazione e tutela della storia scientifica di un manicomio come quello romano, decidemmo, già prima della chiusura dell’ospedale, di costituire un gruppo di lavoro, l’attuale Centro Studi di Ricerche dell’ASL Roma E, che si dedicasse all’ attività di recupero del patrimonio: ci prendemmo carico dell’archivio amministrativo, storico e clinico (fino a quel momento non adeguatamente tutelato sebbene uno tra i più vasti in Italia e risalente alla metà del 1500) e della biblioteca del manicomio, la Biblioteca Cencelli, che conserva un fondo antico e moderno contenente libri molto rari sulla storia della medicina e della psichiatria.
Contemporaneamente alle attività sull’Archivio e sulla Biblioteca, decidemmo di costituire, all’interno di un padiglione del manicomio da poco liberatosi, un deposito di oggetti e di beni immateriali ritrovati all’interno della struttura, ritenuti importanti testimonianze del passaggio dalle pratiche manicomiale alla psichiatrica sociale e di comunità: strumentazione medico-scientifica ed opere d’arte irregolare prodotte dai pazienti. La complessità che l’intero progetto stava assumendo, ci suggerì di allestire, con il Patrocinio della Provincia di Roma, una mostra intitolata “La Linea d’Ombra” utilizzando il materiale fino a quel momento raccolto.
La grande risposta del pubblico, nettamente superiore alle aspettative, fece emergere il forte interesse nel conoscere una storia, fino ad allora, poco narrata. Pertanto, si passò da quella che era stata una semplice esposizione di oggetti, con un allestimento artistico minimo, ottenuto grazie alla disponibilità di amici ed architetti che hanno collaborato al progetto, all’idea di costruire un percorso museale.

mlm4Quali attori sono stati coinvolti a livello di progettazione e finanziamento?
Possedendo una conoscenza basata sull’esperienza clinica nel campo della salute mentale, e non avendo alcuna formazione specifica nell’ambito di conservazione, musealizzazione e gestione in ambito culturale, cominciammo a lavorare sul progetto cercando di avviare una serie di collaborazioni con Enti che possedevano il Know how adatto al progetto, quali il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Sovrintendenza archivistica per il Lazio e la Sovrintendenza per i Beni Librari della Regione Lazio, e che ci potevano permettere di passare dall’idea alla realizzazione.
Decidemmo dunque di presentare un progetto per uno studio di fattibilità sull’ipotetica costruzione di un museo al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica; questa proposta venne presentata all’interno di una legge ad hoc per la divulgazione della ricerca scientifica, che premiava annualmente musei già esistenti o progetti universitari.
La Commissione del Ministero approvò il  progetto presentato dalla nostra Azienda, in seguito istituimmo altre collaborazioni scientifiche come ad esempio con il Professor Alberto Oliverio, direttore dell’Istituto di Psicofarmacologia e Psicobiologia del CNR, con il quale progettammo uno degli strumenti espositivi sullo studio della percezione umana, la Camera di Ames, ancora oggi presente nel percorso espositivo.
Questo tipo di collaborazioni indusse il Ministero ad istituire una Commissione per la Tutela e la Valorizzazione del Patrimonio Storico Sanitario Italiano: il nostro gruppo di lavoro venne invitato a divenirne membro in veste di rappresentante del sistema sanitario nazionale.
I finanziamenti stanziati dalla Commissione, 150 milioni di lire, non vennero utilizzati per lo studio di fattibilità, come inizialmente previsto, ma furono subito impegnati per l’esecuzione dei lavori: avendo a disposizione un edificio di 1500 mq, diviso su due piani, decidemmo di attuare un’opera di bonifica del piano terra e avviare la realizzazione di un primo percorso mussale che in seguito divenne il Museo Laboratorio della Mente.

Perché si decise di definirlo Museo Laboratorio?
Non si voleva creare un Museo di Storia dell’Istituzione Manicomiale di Roma, perchè si riteneva riduttiva quest’idea: ripercorrere la Storia di un manicomio significava creare una storia parcellizzata, perchè ogni manicomio italiano era fortemente legato al suo territorio. Il nostro obiettivo era quello di superare la logica territoriale e creare un percorso museale che raccontasse il comune paradigma dell’esclusione, trasformando la specificità delle storie locali in punto di partenza per raccontare la storia di tutti.
Per far questo, decidemmo di chiamarlo Museo Laboratorio, costruendo un luogo dove tutti i visitatori potessero sperimentare non solo la dimensione storica del manicomio, ma la stessa condizione dell’esclusione, anche fisicamente: strutturammo la visita in modo tale da costringere i visitatori a passare attraverso una serie di esperienze sulla tematica della percezione, la cui finalità era richiamare la costruzione della rappresentazione dello stigma della malattia mentale.
Essendo operatori della salute, eravamo consapevoli che il nostro nascente museo sarebbe stato parte dell’attività istituzionale del servizio sanitario, e volevamo che elementi facenti parte integrante del servizio potessero emergere: dalla prevenzione della salute, alla ricerca, alla lotta allo stigma, etc.
A prova del fatto che stesse realmente nascendo un nuovo servizio, tutti quelli che avevano partecipato alla sua realizzazione furono chiamati ad abbandonare i loro precedenti impegni lavorativi; molti non ce la fecero, spaventati forse dalla non ancora definita forma della nuova struttura, tutta da immaginare. Personalmente lavoravo come clinico all’interno di un centro di salute mentale e ho dovuto abbandonare l’ambulatorio e i pazienti che avevo sul territorio.
Il Museo, in pochi mesi prese la sua prima forma e da subito cominciò a funzionare. Individuammo nelle scuole il veicolo che maggiormente si prestava alla lotta contro i meccanismi dell’esclusione e dello stigma. A quell’epoca all’interno delle scuole, l’informazione veniva trasmessa illustrando cosa è un disturbo psichico, modalità spesso noiosa e priva di efficacia; il nostro gruppo, da sempre oppositore di tale metodologia,  pensò di ideare un nuovo percorso educativo  che mostrasse gli accadimenti italiani degli ultimi 40 anni tra il prima e il dopo manicomio, compreso di tutte quelle fasi intermedie che ne hanno decretato la dissoluzione. L’intento era quello di far capire agli studenti l’unicità dell’evento, reso possibile da una condizione culturale, economica e sociale di critica alle istituzioni a cui tutti parteciparono, dagli studenti stessi al movimento operaio, soggetti che, attraverso le loro esperienze, avevano posto le condizioni per creare un nuovo spazio dialettico sulla salute (i.e tutela della salute, scambio e contrattazione tra chi cura e chi è curato, etc…)

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