alt_spazio-espositivo-con-opere-di-maurizio-cattelan_allan-mc-collum_paul-mc-carthy_fabrice-gygi_gianluca-codeghini_collezione-leggeri-bergamo_ph-roberto-marossiVarcando la soglia della ex Italcementi ad Alzano Lombardo ora ALT – Arte, Lavoro, Territorio, vengo catapultata in uno scenario inedito: si respira subito una familiarità incredibile. Per prima cosa noto che l’Architetto Leggeri, mente e braccio insieme a Elena Matous Radici del progetto di riqualificazione dell’edificio ex industriale, è coinvolto in appassionate discussioni curatoriali con Fabio Cavallucci e Giacinto Di Pietrantonio. Paola Tognon sta scartando un Tony Cragg meraviglioso con un operaio di Leggeri, mentre l’artista greco Dimitri Kozaris sta dipingendo la sua installazione. Tutti coinvolti nell’impresa in questa antica-moderna cattedrale del lavoro, come una squadra di ingegneri su un nuovo progetto di sviluppo.
Un edificio che ha ritrovato la luce e la vita grazie al sogno di due imprenditori bergamaschi che riuniti nella memoria di una grande affetto, Fausto Radici, hanno continuato a lottare per la ricerca e l’innovazione, fino a concretizzare il sogno e offrirlo al pubblico, al futuro. Esempi virtuosi di imprenditorialità che dialoga con la cultura con una visione di responsabilità sociale sostenibile.

Volevo cominciare parlando di voi da un punto di vista diverso rispetto a quanto messo in luce in altre interviste che avete già rilasciato fino ad ora. Dunque accantoniamo un attimo la vostra anima di collezionisti per concentrarci sugli imprenditori. Che tipo di imprenditori siete? Visionari. Veri ricercatori. Credo che quello che ha avvicinato me e Fausto Radici sia  la voglia di fare ricerca, specialmente in Fausto che per me era un campione in tutti i sensi. Il quotidiano non gli bastava, gli stava stretto. È stato per me un esempio di sperimentazione continua, ma sperimentazione intesa come ricerca per progettare il futuro, con grande amore, cioè l’amore per un futuro migliore. Lui l’ha ricercato più di me senz’altro nell’industria e io forse l’ho ricercato di più nell’architettura e nell’arte. Però con la stessa voglia, identica, di fare ricerca.

Tullio Leggeri:

Elena Matous Radici: La mia esperienza è diversa rispetto a quella di Tullio. Io sono imprenditore per forza, trovandomi purtroppo di fronte alla perdita di mio marito, per cui a un certo punto ho preso in mano le cose di famiglia. Anche se devo dire che la passione per l’arte è nata insieme a mio marito, addirittura quando ancora non eravamo sposati, ed eravamo sciatori e questo girare il mondo ci permetteva di soddisfare le curiosità nei posti più svariati. Eravamo sciatori a livello mondiale dunque giravamo dagli Stati Uniti, al Giappone, all’Europa alpina e ciò ci permetteva già da ragazzi, poco meno che ventenni, di avere tanti input differenti. E forse allora era inconsapevole, poi ha trovato la sua collocazione ed è diventata un momento importante della nostra vita di persone. Nella posizione di imprenditore, come diceva Tullio, chiaramente Fausto ha sviluppato un’attenzione molto più finita e addirittura propositiva per l’arte perché nel suo ruolo di capitano d’industria sentiva quasi il dovere di sviluppare questa passione anche a livello diciamo aggressivo, inventando situazioni nuove, sperimentazioni nuove che potessero aggregare dei valori a quello che stava già facendo nel suo lavoro.
E chiaramente l’amicizia con Tullio da questo punto di vista è stata esplosiva, in questo erano sicuramente molto simili. Giusto?

T.L. è vero. Un esempio lampante è questa iniziativa, che ritengo tra le più nuove in Europa. Da un lato c’è l’attenzione al recupero dei vecchi contenitori industriali. Questo spazio infatti era destinato a crollare.
Ho chiamato Fausto il giorno che l’Italcementi mi propose in vendita questo edificio. Non abbiamo mangiato quel giorno: ci siamo fatti dare le chiavi subito e siamo stati due ore a guardarlo. Anche lui rimase colpito per l’energia latente che esprimeva questo luogo e abbiamo immaginato in qualche modo di salvarlo.

Che cosa avete visto dentro questo luogo? Cosa vi ha evocato?
T.L.
Ma innanzitutto il lavoro, la ricerca, la sofferenza. Questa è stata la prima officina del gruppo Italcementi. Era piena di modelli di legno perché c’era anche una piccola fonderia. In quanto nata come azienda leader nel mondo del cemento alla fine dell’800, questa stessa azienda progettava e costruiva le macchine per la produzione.

E.M.R. Faceva la sua ricerca e sviluppo.

T.L. La ricerca era al suo interno appunto. Ancora oggi l’ingegneria meccanica che sotto intende la costruzione del macchinario necessario per fare il cemento e le calci in tutto il mondo, proviene per il 70% dalla terra bergamasca. Poi sono nati studi di ingegneria esterni, che vanno in tutto il mondo per fare i forni delle calci. È una tradizione storica e caratterizzante il nostro territorio. in luoghi come questo è nata.

EMR. Questa spiritualità e densità storica si leggeva subito nelle mura.

TL. È un abbinamento straordinario questo contenitore. I proprietari, i Pesenti, l’hanno fatto progettare dal Pirovano, uno dei migliori architetti di fine secolo lombardo, con l’intenzione già dichiarata di trasformare un luogo di lavoro, in una grande architettura di rilievo estetico, per celebrare la nobiltà del luogo, quella di centro di ricerca e sperimentazione. La stupenda facciata che dà sulla ferrovia ne è la dimostrazione. Sono poche le volte in cui in Italia abbiamo assistito ad esempi così. Adriano Olivetti ha abbinato l’intenzione di sviluppare un’azienda leader con la collaborazione con grandi architetti e di creare questo connubio ideale fra architettura, lavoro e produzione. E noi abbiamo voluto chiamare apposta questo posto ALT: Arte, Lavoro,Territorio.
Lavoro nel senso dell’andare a cercare le eccellenze del territorio in tutti i campi. Fausto, che era stato in tutto il mondo, sosteneva che a Bergamo ci sono le eccellenze in tutti i campi del sapere.

EMR. In Italia sono pochi gli esempi virtuosi come Olivetti.
Era una qualità rilevante del carattere di Fausto ritenere che la formazione e l’esaltazione dell’eccellenza fossero cose molto importanti.
Nasceva anche come uomo sportivo, colpito da un tumore da piccolo perdendo un occhio: era un lottatore. Lottava e attraverso la sua lotta ha raggiunto personalmente delle eccellenze assolute e mondiali. Quando diventi uomo vedi la vita dall’altra parte della barriera, ti sei lasciato dietro questo egoismo e forza della gioventù, dell’adolescenza, passi oltre e cominci a pensare che occupi un ruolo nella vita, per cui devi promuovere e devi creare. Devi ridistribuire ciò che la vita ti ha dato.
E lui era un grande sostenitore dell’esaltazione dei talenti, della cura di se stessi, della formazione delle persone e del domani.

Perché fra le passioni attraversate, Fausto Radici ha proprio scelto l’arte contemporanea? Quale il suo valore aggiunto?
TL.
L’arte perché lui ha scelto la ricerca. Non si è accontentato di appassionarsi all’arte antica, che è sempre una scoperta, diversa. Ma ha amato quella nuova, contemporanea, del suo tempo.

EMR. Infatti. Anche perché in un’azienda chimico tessile come la Radici Group, chiaramente l’innovazione è il “must”. Senza innovazione non sopravvivi a te stesso. Di conseguenza il suo ruolo di imprenditore lo obbligava a guardare avanti. L’arte è stato l’elemento che ha affiancato questa sua crescita, sua necessità, che si può definire anche come forma di coraggio. Lui ha lasciato scritto che gli artisti gli hanno dato il coraggio nel credere nel futuro e nei progetti a lungo termine.

TL. Soprattutto nei progetti a lungo termine.

Quindi esiste una comunanza fra l’essere imprenditore, guardando e costruendo il futuro e l’artista che si rinnova sempre nella pratica del fare, del produrre, dell’innovare?
EMR.
Per Fausto è stato così. Chiaro che l’arte era anche un modo piacevole per passare il tempo libero in famiglia. Ma anche rappresentava un aspetto formativo, quello di occupare il tempo libero crescendo, assaporando la vita, conoscendo artisti interessanti, diventando amico degli artisti. Ma il cuore,  il filone che lo ha trascinato è quello che si è detto. La ricerca.

Leggendo alcune interviste e profili sulla vostra attività, riscontro proprio che Fausto portava gli artisti e le opere in azienda, mentre Tullio si mette a disposizione degli artisti per lavorare con loro e imparare da loro.
TL.
Ho chiamato molte volte gli artisti per risolvere insieme alcuni miei problemi di architettura. Continuo a dirlo all’esasperazione anche ai seminari dove mi invitano: seguite gli artisti anche nei momenti di convivialità, perché hanno uno sguardo differente. L’architetto non esce più dall’Accademia, ma dalla facoltà di architettura. Non ha più contatto con arte, ma anche l’architetto è un artista: una facciata è un quadro, una scultura. Ci sono valenze estetiche importanti e se si sbagliano, ne risente una catena di elementi. Uno deve avere l’umiltà di riconoscere i  propri limiti e io  in diverse situazioni con l’aiuto di artisti ho risolto problemi di architettura.
Un esempio sono gli uffici che ho realizzato vicino all’inceneritore delle Rea, per Fausto e Elena. Erano una struttura semplice in vetro e ferro: l’intervento di colore sul ferro di verde autostrada ha ribaltato l’effetto, l’ha trasformato in un altro oggetto. Non più banale. C’è voluta la forza di introdurre il colore, cosa che non si fa di solito. E io da solo non l’avrei mai fatto senza l’apporto di un artista che ha più padronanza di me nel gestire il colore.

alt-arte-contemporanea_esterno_low-per-online1Torniamo qui all’ex Italcementi, nome simbolico per Bergamo e la sua storia territoriale, edificio di archeologia industriale. Cosa vi siete figurati in questo edificio nel futuro? Perché destinarlo all’arte?
TL.
Penso a questo edificio come luogo per tornare a fare ricerca e sperimentazione come lo era alla sua origine. Questo spazio non ha requisiti di abitabilità. Ha una unica fonte di luce zenitale. Altre parti dello stabile sono state destinate ad abitazioni, loft piccoli e grandi. Questo succede perché bisogna avere l’umiltà di osservare le potenzialità delle strutture, senza avere delle pretese. Bisogna guardare bene a cosa si può destinare un luogo. Riuscire a sviscerare le potenzialità non è facile: io sono riuscito grazie all’Arte, non certo attraverso il mestiere di architetto e costruttore, ma aprendo la mente come fanno gli artisti con sguardo nuovo, osservando in modo diverso. Se non avessi frequentato l’Arte per 40 anni, non sarei mai riuscito a intuire le energie che nascondeva questo luogo.

EMR. Questo è proprio il mestiere di Tullio: non è solo costruttore e architetto, è cresciuto in mezzo alle cazzuole e al cemento, non si limita alla progettazione e al disegno, ma interviene fattivamente. Lui vive il luogo che ha disegnato.

TL. Beh, ho iniziato a undici anni a frequentare i cantieri.

EMR. Sì, una vita dedicata. Ricorda i grandi artisti del Cinquecento che si avvalevano degli artisti nel loro lavoro, quasi coincidendo. È sempre stato così nella storia dell’architettura e all’arte.

Qual è quel passaggio che vi ha accomunati nel decidere però di recuperare questo grande edificio e invece che destinarlo unicamente a un’impresa privata, aprirlo al pubblico, offrirlo al territorio?

TL. È una sfida. Non è vero che questo stabile non ha potenzialità. Questo edificio è stato acquistato a poco perché il mercato non lo voleva. Tutti si fasciavano la testa senza sapere cosa farne. Noi ci abbiamo messo un anno di progettazione per carpire le energie e le potenzialità ed è stato sicuramente faticoso. Non è infatti come essere nella situazione di progettare su un terreno vergine edificabile, ma portare idee nuove in un contesto già limitato, riscoprire, ridestinare. Qui bisognava inventare tutto. La sfida è stata chiedersi cosa fare qui dentro.
Un’innovazione a livello tecnico importante che ha ottenuto il consenso della soprintendenza,- l’edificio è infatti vincolato e per questo motivo ogni acquirente potenziale declinava l’offerta dell’Italcementi- è la sua completa reversibilità. Ogni struttura è smontabile in ogni dettaglio, per esempio veda le passerelle. Tutto è imbullonato.
Questa scelta è nata da una presunzione di avere riconsegnato questo edificio alla storia, quasi fosse diventato una Cattedrale, ma senza vincolarlo nel futuro. Rappresenta un bel elemento di archeologia industriale. Fra 500 anni vedo questo luogo aperto e offerto ai posteri, che lo agiranno in modo diverso da noi.

Dialoghiamo con il territorio. Come sono le relazioni e i riscontri?
EMR.
Questo edificio è straordinario. L’abbiamo acquistato perché aveva un valore simbolico fortissimo. Sono spiacente che scelte successive abbiamo rovinato la sua visibilità dal corso del fiume. Una volta si vedeva perfettamente il suo profilo dalla strada, ma in seguito sono state costruiti altri edifici. Forse perché non si credeva che potesse sviluppare delle potenzialità del genere.

TL. È vero. Abbiamo cominciato da soli. Se non fosse stato per il sostegno di Fausto, non solo in termini materiali, ma di visione, non sarei arrivato in fondo. Perché nessuno mi credeva o sosteneva. Questa era la sfida.
Ora che siamo riusciti ad aprirlo, intorno a noi c’è curiosità e consenso. Ma è stato molto faticoso. E anche doloroso in qualche modo. Non eravamo capiti.

EMR. Siamo stati visionari…ma soprattutto folli. Con molti ostacoli durante il percorso, talvolta dalla parte della Soprintendenza e del Comune. Bergamo non era pronta a comprenderci, ma questo è parte della sua caratteristica, rispetto alla vicina Milano. C’è una componente di provincialismo come molte città del Nord. In Germania operazioni di questo tipo sono più comuni, ad esempio 30-25 anni fa in Rhur già si cominciava a riconvertire l’edilizia ex-industriale. A Bergamo siamo in primi.

TL. Sì. Hanno abbattuto purtroppo molte architetture ex-industriali molto belle. Avevo molte idee anche per altre strutture. Rimane un po’ di amaro talvolta per questa chiusura alla sperimentazione e alla ricerca. Ma non bisogna scoraggiarsi e andare oltre la politica.

Con l’apertura di ALT, Bergamo si ritrova con due musei di Arte Contemporanea, l’altro è la Gamec, rispetto a Milano che non ne ha neanche uno. Avevate previsto una situazione come questa? Pensate di attivare virtuose collaborazioni con le realtà culturali locali?
TL. Ma certamente! Ci sono sinergie continue. Io ho suggerito a Giacinto Di Pietrantonio, dieci anni fa, di costituire un’associazione dei musei di arte contemporanea italiani (NdR: AMACI). E adesso vi entreremo a far parte anche noi.

Come sono i progetti per il futuro? Aprite con questa mostra, e come proseguite?
TL.
Abbiamo già pianificato i prossimi due anni. Qui esponiamo solo il 25-30 % delle opere delle nostre collezioni. Dunque, sotto questo profilo, non abbiamo problemi. C’è molto materiale per lavorare anche su mostre tematiche. Anche questa lo è, ma è più concepita come una rassegna trasversale della contemporaneità.
In questo momento l’Arte sta diventando moda. Collezionisti “ammalati” come lo sono io, ma anche Elena e Fausto, sono interessati alla ricerca, fuori dalle logiche del mercato e dei trend. Per questo la mostra presenta un’arte trasversale, dove ci sono artisti conosciuti e famosi e anche meno.
A noi piace progettare con gli artisti, produrre delle idee nuove. Fausto per esempio, con un grande atteggiamento innovativo, per primo mise i lavori nella Fabbrica, dove gli operai cominciarono a interrogarsi sul nuovo: sfidò persone che erano al massimo abituate a vedere opere sacre nelle loro chiese di paese o quadretti nelle loro case, con l’avanguardia, mettendogliela sotto il naso. Visione di un bello per crescere educare e voglia di far cambiare.

EMR. Bello o non bello: non era questo l’argomento che ha mosso Fausto e me verso l’Arte. E non credo sia un metro di giudizio per Tullio. Ci siamo sempre avvicinati all’opera, al quadro, alla scultura, bidimensionali, tridimensionali, con il cuore e la mente aperti, con curiosità, verificando se queste dialogavano con noi, se l’opera faceva scaturire in noi un momento di crescita, domanda, riflessione, apriva nuovi temi. Non abbiamo mai collezionato opere per speculare.

TL. Infatti. Io, come ho detto anche in altre interviste, ho sempre comprato opere che non ho capito, perché sono quelle che mi hanno interrogato. Chiaro che talvolta è capitato di fare l’affare con una bella opera, perché magari alla Galleria non interessava troppo, la vendeva a meno rispetto al mercato e allora non mi sono fatto sfuggire l’occasione. Così è capitato con un Gilbert&George, ad esempio. Ma normalmente acquisto quando non capisco l’opera che ho di fronte.

EMR. Beh, le occasioni non vanno perse. Anche perché certi artisti in una collezione non possono mancare perché fanno parte del percorso di crescita e storicizzazione, ne danno completezza.

barbara-kruger_untitled-good_2001_courtesy-collezione-leggeri_bergamo_lowCome si sostiene ALT?
TL. ALT è sì un progetto visionario e simbolico, come abbiamo descritto, ma anche un’impresa concreta. Anche in questo senso abbiamo speso le nostre competenze per creare un piano economico sul Museo, perché non si vanifichino i nostri sforzi.
Sono stato contattato dall’Unione Industriali e dalla Fiera di Bergamo, perché ci chiedono lo spazio. Noi lo affitteremo con la collezione dentro per renderlo multi-funzionale: dare la possibilità al pubblico di organizzare convegni, conferenze, banchetti, teatro, altre iniziative con questo plus dell’arte. Un ristoratore di altissimo livello, ad esempio, ci ha chiesto di poter collaborare. Questo ci rassicura per conservare l’autonomia di ALT e farlo procedere da solo. Riattiveremo anche una centralina elettrica che ci darà un margine mensile per le nostre attività di gestione.
Sta nella nostra cultura imprenditoriale attivarci per essere autonomi.

EMR. Non solo. Penso sia uno dei ruoli di questi contenitori culturali di essere poli-funzionali: in Germania, America, Inghilterra si fa. è d’abitudine che le famiglie, il pubblico, fruiscano in modo più quotidiano spazi culturali. ALT si propone come un passo avanti rispetto al sistema pubblico che spesso è rallentato e non ricerca abbastanza. È ingessato in processi burocratici che non permettono di favorire progetti come questo.

Continuerete con la produzione degli artisti?

EMR. Non solo. Questo è lo spazio dove continueremo a dialogare. È lo spazio giusto, amico, per tutta la bergamasca. È un’occasione che offriamo al territorio; non abbiamo intenzione di chiuderci. Qui possiamo fare qualsiasi tipo di sperimentazione e di ricerca, sia sul lavoro, sulle arti visive, sullo spettacolo. Io mi figuro anche dei concerti. Perché no? Non è uno spazio rigido, ma in divenire. Noi saremo propositivi ovviamente, ma vogliamo tendere le orecchie e filtrare ciò che proviene da fuori, mettere nel binario di serietà e gioiosa ricerca ogni iniziativa che si farà qui dentro. La qualità è la cifra caratterizzante, come il sostegno delle eccellenze. Vogliamo dare spazio a coloro che hanno il coraggio di fare quel passo in più, di porsi domande e di vivere non in modo passivo, ma propositivo. Così l’umanità è andata avanti. Noi che abbiamo questa sensibilità e ruolo, vogliamo fare la nostra parte.

Un’ultima domanda. Pensate di diventare modello virtuoso per qualche altra impresa privata o ente pubblico che guardi al vostro esempio di visionarietà e coraggio?
TL.
Io penso che qualcosa stia già succedendo. Per esempio la fabbrica qui davanti a noi. Osservo che se prima non avevano le idee chiare, ora con questa nostra proposta, si interrogano sul da fare. È pur vero che coloro che hanno puntato solo su imprese di business, non hanno la formazione adatta per promuovere progetti come questo, che oltre ad essere nati e cresciuti per passione, sono frutto di studio e fatica, di competenza. Anche di una scelta per il futuro.

EMR. Io non ho questa presunzione. Non voglio essere modello per nessuno, ma sarei felice di incontrare altri Tullio Leggeri nel mio percorso.

TL. Sei gentile. Ma così mancherebbe lo stimolo. Io ho iniziato quindici anni fa da solo a collezionare arte contemporanea a livelli alti. Ora siamo sette/otto nella bergamasca. Qualcuno mi ha seguito.
È pur vero che senza la Gamec e la figura del direttore Giacinto Di Pietrantonio, Bergamo sarebbe ancora a dei livelli bassissimi di cultura del contemporaneo. Grazie a Fausto e me, possiamo godere della presenza di Giacinto. Siamo stati noi a sostenerlo.

EMR. Giacinto ha fatto un grande lavoro. Questo è un esempio del ruolo sociale del settore pubblico. Bisogna creare i modelli nuovi di vivere la modernità. La gente arriva dove viene proposto qualcosa di nuovo. ALT è lo spazio dove poterlo fare senza vincoli.

TL. Per questo adesso proponiamo una mostra provocatoria e trasversale, dove ci sono artisti riconosciuti a livello internazionale a fianco di eccellenze dimenticate dal mercato, ma secondo me non inferiori di quelle codificate dal sistema. Noi abbiamo questa volontà e capacità di dire queste cose. Forse il sistema pubblico è più vincolato.

EMR. Vogliamo essere una spalla, un’opportunità in più per il sistema, per gli artisti emergenti.

TL. Siamo aperti allo scambio. Per quello ci vogliamo mettere in rete, in dialogo, anche per condividere le opere, le produzioni, gli artisti, in una logica anche di economizzazione delle risorse, che fa parte della nostra cultura, ma facendo sistema.

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