opeaL’atto di accusa sferrato qualche giorno fa dal Ministro per la PA e l’Innovazione Renato Brunetta in quel di Gubbio contro gli sprechi del Fondo Unico dello Spettacolo (1) e gli inevitabili strascichi che ne hanno fatto seguito hanno riacceso il dibattito sulle sorti di un comparto che sta già facendo i conti con un significativo taglio dei finanziamenti pubblici (2). 

Le polemiche e le varie prese di posizione, da quelle più radicali (chiudere il rubinetto del FUS e affidarsi sic et simpliciter al mercato come qualsiasi settore industriale) a quelle più sensate (sganciare il cinema dal FUS e alimentarlo attraverso una equilibrata fiscalità di scopo, proseguire sulla leva fiscale), offrono più di uno spunto di riflessione sulla “qualità” dell’intervento pubblico in materia culturale e dimostrano quanto sia essenziale disporre di dati trasparenti sui quali fondare i propri ragionamenti (ben venga l’iniziativa di Barbareschi di preparare un libro bianco da portare in Parlamento).
Prendiamo ad esempio in considerazione le metodologie con le quali si calcola il ritorno economico sugli investimenti pubblici. Se pare anacronistico mettere a confronto i contributi dello Stato diretti alla produzione semplicemente con i ricavi da box office (che oramai rappresentano in media non più del 30% degli introiti complessivi (3)) , non è tuttavia sufficiente estendere il perimetro ai ricavi derivanti dallo sfruttamento del prodotto sulle altre finestre commerciali (home video, diritti esteri, pay tv, free tv, nuovi media).
Sarebbe più importante analizzare quanto effettivamente rientra allo Stato a titolo di restituzione del mutuo contratto con le imprese, in termini di imposte dirette ed indirette (non solo l’Iva), di versamenti di contributi previdenziali, di attrazione di risorse da parte del territorio in cui si gira il film e di indotto turistico. Va tenuto conto, inoltre, che la Direzione Generale del Cinema non esaurisce il proprio sostegno finanziario con i contributi diretti alla produzione, ma assegna alle imprese cospicue risorse sotto forma di contributi sugli incassi  e premi di qualità. Si tratta comunque di un volume di finanziamenti pubblici la cui proporzione, rispetto a quella delle risorse private, sta assumendo dimensioni sempre più marginali (nel 2008, su 330 milioni di investimenti in film italiani, solo 71 sono di provenienza pubblica, ovvero il 21,5% (4)).

Quelle di Brunetta non sono state affermazioni estemporanee, in quanto il Ministro aveva contribuito alla realizzazione due anni fa di un volumetto dal titolo Cinema Profondo Rosso, che già aveva scatenato forti reazioni dal mondo della sinistra. Quest’ultima, a sua volta, aveva replicato con un pamphlet, Lo Stato delle cose, nel quale venivano snocciolati i dati comprovanti la virtuosità dell’investimento pubblico nel cinema.
Non va poi dimenticato che un bel carico da novanta lo aveva già rumorosamente messo sul tavolo lo scrittore e regista Alessandro Baricco con un argomentato articolo che, seppure provocatoriamente, proponeva di spostare i fondi pubblici dal teatro verso la tv e la scuola in modo da risultare più efficaci (5)

fusUn’autorevole rivista economica on line (che non può certo essere accusata di vicinanza con i programmi dell’attuale governo) si è di recente interrogata sui diversi approcci adottati all’estero e sui vantaggi legati alla possibilità anche nel nostro Paese di erogare finanziamenti solo a quelle organizzazioni culturali in grado di garantire adeguate risorse private (6).
Il merito di questi interventi è  quello di mettere a confronto il sistema italiano con i modelli in voga nei Paesi anglosassoni, tentando di proporre, con argomenti scientifici, alcune soluzioni per correggere le attuali disfunzioni.

Negli Usa (ma non solo) gli schemi di supporto pubblico mirano ad evitare che l’ottenimento di un finanziamento statale possa, per varie ragioni, far diminuire l’incentivo dell’istituzione o dell’impresa a ottenere finanziamenti privati (matching grants). Due esempi di cofinanziamento sono i “challenge grants”, o una loro variante “reverse grants”, basati su precisi indicatori di performance. I primi prevedono che per ogni euro/dollaro di finanziamento pubblico l’organizzazione deve ottenere almeno tre (o quattro) euro/dollari di finanziamento non statale.
Nei secondi lo Stato assicura un proprio contributo in caso di un incremento considerevole delle fonti di finanziamento privato, sia nella forma di donazioni da individui sia nella forma di sponsorship da imprese private o fondazioni.
Tali schemi (che ovviamente non sono applicabili a tutte le imprese o istituzioni) sono stati adottati in concomitanza di politiche fiscali restrittive o per fissare un limite massimo alla spesa governativa per singolo ente.

In Italia la logica è inversa: i finanziamenti pubblici non “seguono” la volontà dei soggetti privati (e degli spettatori) mostrando scarsa o nulla attenzione alla domanda. Nonostante alcuni tentativi di riforma (circoscritte al cinema e che non a caso si vorrebbe rendere autonomo rispetto al Fus) (7) l’approccio resta ancorato ad una pura logica di sostegno all’offerta volta a spingere verso il basso il prezzo dei biglietti ed aumentare l’accesso di nuove fasce di pubblico alla cultura.
In realtà è noto come questa strategia abbia sortito scarsi risultati. In alcuni settori (come la lirica, dove il celebre morbo di Baumol è molto più aggressivo) i prezzi restano comunque molto alti, ma soprattutto non si riscontra né un ricambio generazionale nel pubblico (tranne le solite eccezioni), né una estensione della platea dei destinatari.
Da questo punto di vista le tesi di Baricco hanno un indubbio fondamento, considerando che i finanziamenti pubblici a istituzioni culturali come teatri di prosa ed enti lirici risultano inefficaci sia sull’atteso effetto moltiplicatore sia a livello di educazione e formazione di nuovo pubblico. Non va demonizzata pertanto la sua proposta di destinare risorse aggiuntive là dove c’è maggiore “terreno fertile”, ovvero scuola e televisione (8).
Attenzione. Non è affatto scontato che invertendo gli schemi di finanziamento e ponendo le risorse private come locomotiva virtuosa della crescita delle attività culturali si giunga automaticamente ad un più ampio accesso da parte di nuove e diversificate fasce e categorie di pubblico. Negli Usa, infatti, dove l’incentivazione alle donazioni private rappresenta il cuore delle politiche culturali nazionali, la maggiore presenza di risorse private per teatri ed enti lirici avvantaggia solo quelle fasce di popolazione caratterizzate da elevati livelli di reddito o di istruzione (le più rappresentate all’ interno del pubblico di eventi culturali rispetto ad altre) (9). 

In Italia, proprio l’adozione di meccanismi istituzionali simili ai matching grants per l’allocazione delle risorse statali per lo spettacolo potrebbe rappresentare una via per nuovi “impresari” nella raccolta fondi per la cultura: teatri di prosa e fondazioni liriche sarebbero spinti a sviluppare in questo senso maggiori competenze di fundraising per evitare costi crescenti e produttività decrescente.
Nel nostro Paese prevalgono meccanismi decisionali per la distribuzione dei finanziamenti pubblici ibridi, che da un lato fanno affidamento a commissioni di esperti in grado di valutare la qualità artistica e la fattibilità economica dei progetti presentati (tipiche dei sistemi accentrati), e dall’altro prevedono, per attenuare i rischi di discrezionalità e condizionamento politico-ideologico, criteri di tipo storico e rigidi parametri quantitativi da rispettare ai fini dell’ammissibilità dei progetti.
Sempre sul versante della domanda, accanto ai matching grants, un’ulteriore azione di policy che agevolerebbe l’accesso di nuovo pubblico all’offerta culturale è la creazione di sistemi complementari di finanziamento diretto alla domanda, nella forma, ad esempio, di voucher culturali. In alcuni paesi europei,  (i Paesi Bassi, ad esempio), lo Stato accorda a determinate categorie di pubblico, che considera importante “esporre“ all’esperienza artistica, un voucher spendibile a propria scelta in una o più istituzioni culturali. Sulla base dei volume di voucher raccolti dai diversi teatri viene concesso, successivamente, il finanziamento statale.

Da queste riflessioni in ordine sparso, emerge come le problematiche relative all’accesso all’arte e alla cultura dei cittadini che ne sono attualmente esclusi siano comuni a molti paesi occidentali, a prescindere dal sistema di finanziamento adottato.
Il sistema dei voucher e più in generale l’introduzione di meccanismi di incentivazione diretta della domanda (basati sui matching grants) aprirebbero una strada nuova che vale la pena percorrere anche in considerazione delle attuali condizioni in cui versa il settore. L’iniziativa potrebbe partire dalle Regioni, visto il ruolo sempre più determinante svolto dagli enti locali in materia di promozione cinematografica, assegnando un ruolo sussidiario allo Stato, come prevede la stessa riforma del Titolo V della Costituzione.
Il rischio è quello di importare ricette che funzionano all’estero con la presunzione che producano risultati immediati anche in casa nostra, senza prima modificare il contesto normativo complessivo e fare realmente in modo che operatori e PA siano capaci di recepire le nuove misure di intervento.
Ancora una volta l’idea è quella di puntare sulla formazione a tutti i livelli e su progetti di educazione validi e di ampio respiro.
Primo banco di prova, a breve, sarà il comparto della lirica, sul quale è stato annunciato un radicale intervento di riforma, visto che la maggior parte dei teatri d’opera presenta bilanci in rosso, solo in parte addebitabili ai drastici tagli pubblici nazionali.
Più in generale, grandi aspettative sono riposte sulla legge sullo spettacolo dal vivo (da cui è stata stralciata la delicata questione delle 14 Fondazioni lirico-sinfoniche) che, grazie ad un sostegno bipartisan, dovrebbe essere approvata dal Parlamento entro l’anno.
Altro fattore cardine è la leva fiscale per attrarre i privati. Nel cinema l’obiettivo è stato raggiunto con l’approvazione dei provvedimenti tax credit e tax shelter interni ed esterni.
Insomma, occorre guardare ad un sostegno pubblico come forma di incentivo allo sviluppo autonomo del mercato. Ci vuole responsabilità, competenza e interventi organici in grado di drenare risorse dagli anelli forti della filiera (allargata) verso quelli più deboli, ma soprattutto il coraggio di “sganciarsi” da pigri assistenzialismi e da discutibili criteri di assegnazione che, volenti o nolenti, prestano il fianco e legittimano le prese di posizione più radicali. Ciò dovrebbe attenuare i guasti dell’invadenza della politica nello spettacolo, ma anche di quella dello spettacolo nella politica…

 

Note:
(1) “Brunetta: registi parassiti. E il cinema si ribella.” Corriere della sera, 12 settembre 2009. Per le parole espresse a Gubbio, il Ministro è stato querelato dal regista Michele Placido.
(2) A seguito delle vivaci proteste di luglio, portate avanti dalle varie associazioni che rappresentano il  mondo dello spettacolo, il Ministero ha provveduto  a un  parziale reintegro delle risorse (60 milioni di cui 24 assegnati al cinema, 18 alla produzione e 6 alle sale). 
(3) Non va però dimenticato che lo Stato interviene per sostenere film a “prioritario sfruttamento in sala”.
(4) Fonte: Rapporto Anica 2008.
(5) “Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv” è stato pubblicato su La Repubblica del 24 febbraio 2009
(6) “Finanziatori privati in scena” e  “L’opera da tre soldi. Pubblici?” pubblicati su lavoce.info rispettivamente l’11 settembre 2009 e il 10 marzo 2009.
(7) Ci si riferisce alla riforma “Urbani” del 2004 che introdusse il cosiddetto referente system. La legislazione aveva maglie molte più larghe rendendo molto difficile il recupero dei finanziamenti accordati che potevano coprire anche fino al 90% del budget complessivo. Un altro passo in avanti nel cinema è la recente approvazione dei pacchetti di agevolazione fiscale (tax credit e tax shelter), mentre per lo spettacolo dal vivo vi sono ragionevoli certezze che finalmente sia approvata entro l’anno la legge quadro firmata dai deputati Gabriella Carlucci e Luca Barbareschi e condivisa anche dall’opposizione.
(8) A proposito di politiche rivolte alla scuola, va accolta con grande favore l’iniziativa ideata e diretta da Fabio Ferzetti  denominata 100+1, appena partita nella Provincia di Roma e promossa dalla Direzione Generale Cinema del Mibac.
(9) Secondo i dati del National Endowment for the Arts l’84 % degli spettatori che hanno partecipato almeno una volta a un’opera lirica ha un titolo di studio pari a quello rilasciato dal college (nella popolazione americana sono solo il 44,7 %), mentre il 61,9 % ha un reddito superiore ai 50mila dollari (nella popolazione americana questa fascia rappresenta solo il 34,1 % del totale).
Fonte: la voce.info

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