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Intervista a Susanna Mannelli e Riziero Moretti – Ideatori del festival Dall’Isola dell’Isola
L’Isola di San Pietro è una piccolissima perla del Mediterraneo a Sud-Ovest della Sardegna: un solo paese di quasi 7.000 abitanti, popolato da circa la metà del Settecento da un gruppo di liguri di Pegli, coloni dell’Isola tunisina di Tabarka, trasferiti qui in cerca di corallo. Una perla ricchissima di storia dove si stratificano tradizioni che riverberano con la contemporaneità scaricata nel tempo insieme ai metalli e alle merci e poi importata dai turisti nel porto di Carloforte, l’unico paese.
Dall’isola si esce e si parte necessariamente, ma la voce dei venti e del mare richiama al rientro e alle contaminazioni. In una piccola comunità, dove le dimensioni sono ridotte e la rarefazione umana consistente, una motivata e forte pratica di fare cultura vive da tredici anni con la Rassegna teatrale “Dall’Isola di un’Isola”. Una realtà extra small, dove si produce cultura e si valorizza un territorio fuori dai circuiti accreditati e dai grandi centri di riferimento, per scoprire buone pratiche sebbene geograficamente marginali, basate ancora sull’educazione, la fiducia nelle amministrazioni pubbliche, la tessitura di una rete di consenso con relazioni capillari costruite intorno al territorio di pertinenza e al suo ascolto.
Vi voglio insieme, a due voci: l’anima creativa della Direttrice Artistica Susanna Mannelli e l’anima organizzativa di Riziero Moretti, rappresentanti del dialogo virtuoso per la promozione della cultura, anche nei centri minori.
Dall’Isola dell’ Isola di una Penisola: titolo lirico che mette in risalto la vostra marginalità e nello stesso tempo originalità. Chi siete e perché siete nati?
Riziero Moretti: Susanna è l’anima, io l’animale. Siamo una coppia nella vita come per la progettazione e promozione culturale. Lavoriamo insieme da 25 anni.
Susanna Mannelli: Sono arrivata qui circa venticinque anni fa da Roma. Facevo teatro nella Capitale, ma mi sono trovata svuotata e “arrivata” presto sebbene fossi giovanissima. Avevo bisogno di cambiare, stare fuori dalle strutture. Mi piaceva lo Shcoggiu – lo scoglio in dialetto tabarkino -, e desideravo di uscire dalla mondanità, anche per fare tutt’altro…forse il pescatore, lavorare sulle barche.
Ho sentito subito una terra ricca di racconti e con voglia di fare, storie da resuscitare. Immediatamente ho incontrato una compagnia amatoriale di teatro di giovani che mi hanno chiesto di collaborare con loro per curare la regia di uno spettacolo. Sembrava una terra da conquistare, dove potessi sperimentare come desideravo. La verità è che l’Isola ha manifestato subito la sua personalità e mi ha messo in discussione. Mi ha costretto ad ascoltarla, mi ha messo di fronte ad un aut aut: non c’era il mio modo che importavo lì, bensì la riscoperta di un modo sopito di fare teatro, la ricostruzione di una comunicazione espressiva latente.
Ecco la mia possibilità per ripartire.
Qui c’è una tradizione in senso esteso: il dialetto ligure che deriva dalla prima occupazione dell’Isola da parte della comunità genovese insediata a Tabarka in Tunisia. Poi il grande sviluppo come porto commerciale per il trasporto dei minerali del Sulcis, centro nodale in una Sardegna ancora rurale. Infine un centro turistico. La contemporaneità è sempre stata di casa, le contaminazioni hanno viaggiato su tutte le barche e navi passate per il porto, in una costante serie di passaggi. PASSAGGI è anche il nome della Rassegna teatrale che curo in autunno, proprio a indicare le tracce lasciate sulla terra, i solchi di un aratro per la semina. Qui attecchiscono molte cose, perché c’è un fertile humus, una possibilità di feconda ricerca. Non c’è un’accademia accreditata ma una terra vergine, un’Isola che ha imposto su di me un regime, con forza. Ambiente e persone insieme.
Quale identità schiude Carloforte e viene tradotta nel Festival?
S.M.: Concentrandoci su ciò che interessa a me, il teatro, ho scoperto una ricca tradizione di serenate, di musica melodica in dialetto, di canto, di armonie. L’Isola ha dato i natali a molti musicisti professionisti. Ho scoperto l’Operetta e mi ci sono appassionata. I primi anni curavo un teatro un po’ criptico, poi il passaggio al teatro di strada è avvenuto naturalmente circa sei sette anni fa. Anche per l’ambiente naturale che c’è, con il quale abbiamo interagito proponendo percorsi sulle scogliere mozzafiato che ci sono, occupando “altri spazi” da quelli deputati.
Carloforte ha avuto una ricca tradizione di compagnie di giro, ospitate nel Teatro della Cavallera. Un’abitudine all’arte performativa esisteva. Non ho voluto discostarmi da ciò che il territorio offriva ed esprimeva. Una musica melodica che si fonde con quella del vento, che qui arriva dai quattro punti cardinali e genera canti diversi e umori, misti all’umore ligure, tunisino, sardo, spagnolo, alla forza geologica.
R.M.: Siamo nati come Associazione man mano che la compagnia è cresciuta, ma è stato impegnativo ottenere fiducia, perché noi, essendo romani, siamo vissuti come i Furesti, ovvero gli stranieri. Avevamo realizzato piccole rassegne, finché 13 anni fa l’allora Assessore alla cultura di Carloforte Marisa Cambiaggio, ci diede un’enorme fiducia, destinando l’intero budget annuale per la produzione del Festival. Erano 20 milioni: fu una scommessa, un gesto ardito. A quel punto abbiamo subito una sorta di selezione naturale fra coloro che volevano impegnarsi veramente nell’impresa e coloro che hanno preferito distaccarsi. C’era un rischio di impresa da calcolare, perché gli artisti andavano pagati immediatamente per convincerli a venire fino alla piccola Isola. La prima edizione fu in luglio, all’inizio della stagione estiva e fu un successo di pubblico, soprattutto locale. L’Isola rispose con grande curiosità e aspettativa per questa novità assoluta. Fino ad allora il paese era rappresentato dalla piazza principale al passeggio del lungomare. Con una grande intuizione, dovuto anche al suo occhio esperto e competente, Susanna si figurò un nuovo palco: l’area delle mura moresche, dove i carlofortini non andavano mai.
S.M.: Sì, è stato faticoso costruire un rapporto di fiducia e di attesa, ma ora ci ringraziano perché il Quartiere si è rivitalizzato, viene curato in occasione del Festival e i vicini, dopo le prime contestazioni per schiamazzi o altro, ci aspettano, vengono a vedere. Dicono che ora il quartiere è pulito e visitato, parlano del passaggio dei Botti du Shcoggiu…che siamo noi.
Quali le strategie di comunicazione per costruire la vostra reputazione e farvi conoscere?
S.M.: Un lavoro capillare di educazione, partendo dalle scuole. All’inizio la diffidenza l’ha fatta da padrona, perché non si capiva per quale motivo l’Associazione si prodigava tanto e noi in primis per offrire queste opportunità. Pensavano ne ottenessimo qualche tornaconto. Invece abbiamo cominciato a proporre laboratori nelle scuole, avere contatto con i bambini e conoscere le famiglie. La costruzione del rapporto personale è la base delle nostre attività. Chiaramente proporre un coinvolgimento, una pratica del fare, la partecipazione al teatro ha permesso a molte persone di avvicinarsi, comprendere, lasciarsi andare. Una sorta di alfabetizzazione teatrale.
R.M.: Abbiamo patito in questo anche l’avvicendarsi delle Amministrazioni che non sono state tutte ugualmente ricettive. Inoltre anche i passaggi dei ragazzi, dei giovani, che costruivano un percorso per poi lasciare, andare via. Ma alla fine abbiamo verificato i ritorni. Come un elastico.
S.M.: Dall’Isola bisogna partire: è una conditio sine qua non. Ma la ricchezza sono i rientri, i ritorni, che portano molte contaminazione da altrove, altre storie da condividere e trasformare in racconto.
R.M.: Le esperienze laboratoriali hanno permesso la costruzione di legami forti anche oltre mare, come nella compagnia cronobios, costutita da giovani che hanno fatto un percorso di emancipazione, poi sono partiti per costruire una vita oltre il mare e rientrati per continuare a collaborare.
Voi scrivete nel programma “vicino alla bocca del vento Maestro che congiunge il vecchio con il nuovo…”. Come il Paese continua a rispondere, quale trama solida di consensi, quanti turisti vi seguono, quanto vi sembra irrinunciabile il Festival per Carloforte? Quante corti e giardini e case e carruggi avete scovato e schiuso?
R.M.: Il Paese risponde bene, con un tutto pieno dei posti a sedere (almeno duecento persone a spettacolo) e un rispetto per gli spettacoli, seguiti in silenzio e con partecipazione, sebbene dati all’esterno. La nostra fidelizzazione è anche passata per l’offerta di ciò che non c’era prima, ovvero una produzione teatrale e culturale per i bambini, con una parte del nostro budget destinata ad hoc. Le famiglie, le scuole e il Paese hanno apprezzato molto. L’intrattenimento è stato conosciuto anche dai turisti che sempre più scrivono per chiedere conferma delle date del prossimo Festival per prenotare le vacanze di conseguenza. Siamo anche usciti mediaticamente con interviste radiofoniche. Il giardino sotto le mura è stato riconfermato solo per noi e prolunga la sua apertura oltre l’orario medio consentito per fare spettacoli. Questo ci ha permesso di estendere la nostra proposta di intrattenimento e occupare un nuovo spazio che normalmente rimane inaccessibile ai cittadini.
S.M.: La riscoperta dei luoghi è una missione per me. Abbiamo creato un progetto
IL TEATRO DEI LUOGHI, dove propongo un percorso di 4 giorni e 4 notti di laboratorio teatrale, camminando per luoghi naturali dell’Isola, pernottando fuori, alla riscoperta di antichi sentieri, cale e scenari naturali. Grazie ad alcuni amici, Zi in particolare ho visitato molti luoghi dimenticati dai carlofortini, riproponendoli, perché si riappropriassero della consapevolezza del loro territorio attraverso l’esperienza espressiva e artistica…
R.M.: anche se noi rimaniamo sempre Furesti.
S.M.: Beh, il più delle volte la resistenza è delle Amministrazioni troppo ingessate nella burocrazia. Per noi stupendo aver ridato l’accesso dei giardini delle mura ai carlofortini, anche se solo per il tempo del Festival. Confidiamo che la buona pratica porti all’apertura annuale del giardino. Rimane che noi abbiamo sdoganato quel luogo, quell’area del paese che ora ospita eventi anche legati al Girotonno di Giugno, la sagra del tonno che richiama molti turisti da fuori per degustare la nostra cucina tipica.
Come si costruisce un palinsesto così ricco e interdisciplinare? Come raggiungete altri artisti e come vi proponete loro sapendo di occupare una posizione “periferica” rispetto ai centri più “accreditati” della cultura? Come siete organizzati?
R.M.: Il Festival è conosciuto nell’ambiente, dunque durante l’anno riceviamo candidature e proposte di compagnie internazionali che vogliono essere inserite nel palinsesto. Molti stimoli li coltiviamo anche noi informandoci. Per esempio siamo grandi ascoltatori della Radio, soprattutto Radio Rai 3.
S.M.: Non esiste un concept dietro al palinsesto. Si tratta di un incontro di cifre stilistiche, di venti di eventi.
Sicuramente si distinguono diversi filoni: il teatro di strada, la narrazione, il teatro musicale e la musica pura. Il teatro di narrazione è una new entry che ha comportato la nascita della rassegna interna al Festival “Visioni”. Infatti non si presta alla Piazza aperta, bensì a cortili intimi e raccolti dove fissiamo un numero massimo di accesso. Lavoriamo in giardini privati che ci offrono alcuni cittadini di Carloforte, coinvolti ormai nella nostra impresa. Non posso dire di operare una selezione sul palinsesto, se non per l’espressione di verità che il teatro riesce a dare. Sono molte le forme difficili da sintetizzare.
La piazza richiama un certo tipo di teatro che tutti possano ascoltare all’aperto.
Lavoro molto di relazione, con mail scambiate da ogni dove e mi aggiorno partecipando su invito ai Festival vetrina, dove sono presentate le nuove produzioni teatrali, come ad esempio Torino.
Alcuni spettacoli li opzioniamo da marzo; facciamo una pre-selezione a giugno e visualizziamo molti video e portfoli che ci vengono indirizzati.
R.M.: Ci contattano da ovunque, molto dai Paesi del Nord (Norvegia, Svezia) ma anche da Spagna, nonché da molte regioni italiane. C’è come un passaparola fra le compagnie che ci descrivono come organizzazione seria, anche perché paghiamo in anticipo le compagnie e gestiamo la loro ospitalità.
S.M. Beh, anche lo Shcoggiu fa la sua parte! Rimangono tutti estasiati dall’Isola.
R.M.: Chiaro. La voce ospitalità e trasporti incide molto sulle nostre attività, trovandoci su un’isola di un’isola. I Primi sostenitori molto sensibili e ricettivi sono appunto gli operatori turistici che si accordano con noi con favorevoli convenzioni e ospitano la nostra comunicazione nei loro hotel, calendari di eventi e siti informativi. Uno scambio di visibilità e contatti. Alcuni di loro hanno anche offerto spazi per il Festival, magari non esattamente coerenti al nostro progetto, ma lo spirito è di enorme collaborazione.
Istituzioni pubbliche sarde vi patrocinano, come la Regione e la Provincia di Carbonia-Iglesias e alcune aziende locali vi sostengono: cosa li attira di voi? Quanto pensate sia importante la cultura come volano economico e piattaforma di socialità? Quanto per lo sviluppo di Carloforte?
R.M.: Come dicevamo prima, molto dipende dalla ricettività dell’Amministrazione locale. Spesso tutto si riduce alla lungimiranza di un assessore. Cambiata la legislazione, bisogna ricominciare.
Godiamo della legge regionale di supporto alle attività teatrali. Il budget che ci viene assegnato come associazione è valido sia per la nostra attività di produzione di spettacoli e laboratori, ma anche per il Festival. A nostra discrezione assegnarlo alle diverse attività. In questo ritengo che non siamo riconosciuti: il Festival è motore di economia, ingaggia risorse umane per la produzione, crea posti di lavoro. Ci sono molti ragazzi che collaborano con noi. Godiamo anche di qualche finanziamento dalla provincia di Carbonia-Iglesias dove ci siamo fatti conoscere. Per quanto riguarda i rapporti con i privati, esclusi gli operatori turistici dei quali si è detto, abbiamo avviato un rapporto con SEPT Italia, azienda locale, perché l’imprenditore proprietario si è offerto liberamente di sostenerci. Anche in questo caso servirebbe una risorsa per cercare sponsors. Purtroppo i finanziamenti alla cultura sono bloccati.
13 anni di storia: come siete cresciuti? I prossimi progetti da realizzare e obiettivi da raggiungere? Quanto i giovani vi seguono?
R.M. stiamo lavorando alla scrittura di un film tratto da un’opera di Erri de Luca “In nome della madre”.
S.M. Sì, è un film con musica ma doppiaggio dal vivo. Un mix di generi, girato nei luoghi dell’Isola e nel Sulcis, che racconta di passaggi e transumanze.
R.M. Collaboriamo con un giovane direttore della fotografia che ha preso a cuore il nostro progetto e ci ha fornito le necessarie informazioni per la produzione cinematografica. I costi vivi sono alti per noi, si parla di circa 150.000 Euro. Vogliamo chiudere nel 2010, e accedere alla Legge Regionale per il cinema. Anche se siamo un po’ scettici…non sappiamo prevedere che distribuzione e mercato possa avere un tale lavoro!
I giovani sono il futuro. Lavorano con noi almeno 10 ragazzi carlofortini con passione e coinvolgimento. Piano piano vorrei delegare l’organizzazione, per un naturale ricambio, per innovare, per non fermarsi su prassi consolidate che rischiano di perdere la loro caratteristica di ricerca.
S.M. Abbiamo già fissato la data della prossima edizione: 30 agosto-5 settembre 2010. Ho scelto da tempo la prima settimana di settembre per prolungare i benefici effetti della vacanza: qui i turisti soffrono della sindrome da partenza e traghetto. Il Festival è una occasione per prolungare i benefici dello Shcoggiu.
R.M. non sarebbe possibile più avanti perché aprono le scuole delle quali ci avvaliamo come supporto.
Pensate che mettervi in network con altre piccole realtà come la vostra, vi possa favorire?
R.M.: Assolutamente sì. Siamo in contatto con i maggiori festival della Sardegna, ad esempio santannarresi, il thetre en vol di sassari con la rassegna Girovagando, il Teatro sottosuolo di Carbonia, Narcao Blues, per scambiare artisti. In questo modo ospitiamo diverse compagnie nello stesso periodo, facendo ruotare sui nostri festival per abbattere le spese, come è capitato per la compagnia Camillocromo. Questo network ci permette anche di renderci vicendevolmente più visibili nella comunicazione.
Per fare più rumore abbiamo anche fondato qualche anno fa un’associazione chiamata progetto SULCIS, appoggiato alla Provincia di Carbonia-Iglesias. Il risultato è stato deludente purtroppo: scarse risorse e investimento di energie. Volevamo coordinare la pubblicazione congiunta di una brochure con tutti gli appuntamenti culturali della provincia, ma non è stata realizzata come pensavamo. Abbiamo bisogno di risorse e persone motivate a trasformare la socialità attraverso pratiche culturali. Tutti i cambiamenti politici in atto indeboliscono quanto si è costruito in anni attraverso il tessuto sociale. Peccato. Quello che manca è anche un buon tasso di innovazione, che solo i giovani attraverso la loro conoscenze delle tecnologie e la rete possono portare. Per questo ribadisco largo ai giovani!
Vedi i video della manifestazione.