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Un solo esempio basterà a chiarire questa opinione. In uno studio del 1998 sull’uso del capriccio nei bambini venivano date indicazioni non ai genitori per affrontare il fenomeno, bensì ai venditori perché sfruttassero tali dati ai fini del marketing.
Ulteriori ricerche arrivarono alla teorizzazione seguente: esisterebbero due categorie di capricci, il “capriccio di persistenza” e il “capriccio di importanza”. Il primo è quello tipico del bambino tradizionale, per cui la richiesta viene reiterata come una sorta di nenia fino a quando il genitore o si arrabbia o cede per esasperazione. Tuttavia è quello cui l’adulto riesce più facilmente a contrapporsi: all’ennesimo richiesta “Voglio la casa di Barbie”, spesso segue l’ennesimo “Ho detto di no”. Ma davanti al capriccio d’importanza del tipo: “Mamma, ho bisogno della Casa dei Sogni di Barbie così lei e Ken possono vivere insieme e avere bambini e una loro famiglia”, sembrerebbe molto più arduo opporsi. La rivista specializzata americana Selling to Kids raccomanda quindi di inserire all’interno della comunicazione pubblicitaria anche la motivazione legata all’acquisto del prodotto (1).
1. Il Neg factor
Il cosiddetto neg factor (“fattore assillo”), ossia il tormento che un bambino può infliggere ai genitori o parenti sotto forma di insistenze, capricci, paragoni con amichetti, e così via, al fine dell’acquisto di prodotti di varia natura, da quelli alimentari (spesso junk food) a quelli di abbigliamento, passando ovviamente per gli articoli elettronici, è quindi oggi una vera e propria strategia di marketing in grado di mettere gravemente in crisi il rapporto genitori-figli.
Secondo la psicologa Susan Linn, autrice del libro Il marketing all’assalto dell’infanzia: come media, pubblicità e consumo stanno trasformando per sempre il mondo dei bambini, staremmo assistendo ad una sorta di attacco all’unità familiare, grazie a strategie di marketing sempre più aggressive rivolte ad un target sempre più giovane, secondo l’ormai noto imperativo del cradle to grave, cioè “dalla culla alla tomba”. E’ il discorso – da tempo caro ai pubblicitari – della “fidelizzazione”: prima si inizia a legare il consumatore al brand, meglio è. Solo che ultimamente il “prima possibile” si sta traducendo in marketing rivolto ai minori di due anni. Negli Stati Uniti il 60% dei bambini dai 0 ai 2 anni guarda la televisione per oltre 90 minuti al giorno. Il fenomeno è talmente allarmante che l’”Accademia Americana di Pediatria” (AAP) ha dovuto raccomandare ai genitori di non esporre alla TV i bambini di questa fascia d’età. Eppure questa semplice indicazione di buon senso sembra indignare i pubblicitari (e le aziende), che seguendo Ken Viselman, ideatore di Teletubbies, affermano semplicemente che è giusto offrire servizi adeguati ad un
pubblico di giovanissimi, normalmente “poco servito” (2). (Nel caso di Teletubbies, ciò significherebbe che esiste un bisogno insoddisfatto del lattante di guardare la TV..?)
Tutti gli studi di psicologia evolutiva relativi alla fruizione dei media concordano nell’affermare che i bambini già a partire dal primo anno di età sono in grado di reagire a emozioni positive e negative espresse in televisione.
Fino ai cinque anni però, hanno serie difficoltà a distinguere tra programmazione e spot, e solo dagli otto anni in su riescono a capire come la comunicazione pubblicitaria abbia un fine persuasivo, ossia quello di convincere il maggior numero di spettatori possibili a consumare determinati prodotti per incrementarne le vendite. I pubblicitari,
tuttavia, hanno ragione nel sostenere che i bambini sin da piccolissimi siano in grado di riconoscere le marche: da tempo il posizionamento di alcuni articoli sugli scaffali dei supermercati contempla il fattore ”altezza bambino”, cioè la collocazione del prodotto riferita alla “portata di mano” di un bambino seduto sul seggiolino del carrello. Ma, ovviamente, il fatto che i bambini riconoscano i packaging o i loghi perché li hanno visti in TV non significa certo che siano “smaliziati” davanti a messaggi pubblicitari e soprattutto che ciò ne legittimi un marketing specifico così
aggressivo. Non a caso dal punto di vista psicologico e sociologico la categoria rientra nella “vulnerable population”.
2. La Kidfluence
Il marketing è sempre stato molto attento ai mutamenti sociali della famiglia. Negli anni Ottanta, le famiglie americane a doppio reddito avevano creato indirettamente e loro malgrado un nuovo target, i latchkey kids (i bambini che hanno le chiavi di casa perché entrambi i genitori lavorano), dando l’opportunità ai pubblicitari di esercitare la propria influenza su una segmento non trascurabile della popolazione infantile, certo la più debole per la mancanza di supervisione da parte dell’adulto.
Oggi, nell’epoca dei figli di divorziati, il bambino (spesso unico e spesso solo davanti alla tv e al computer perché semplicemente li ha in camera) assume un ulteriore ruolo: si fa interlocutore competente, all’interno della nuova coppia, in materia di consumi. In altri termini, il bambino partecipa sempre più attivamente alle decisioni di acquisto familiari: ad esempio, pare che in America il neg factor “pesi” per oltre il 60% sull’acquisto di minivan o SUVs (3).
Martin Lindstrom, guru del marketing britannico, ci spiega come sia possibile che le nuove generazioni di tweens, ossia di ragazzini non più bambini ma non ancora adolescenti (da between, in assonanza con teen, fascia 6-12 anni) abbiano tutto questa influenza sulle decisioni d’acquisto familiari (da cui il neologismo kidfluence).
Innanzitutto questo è possibile per il fatto che ci troviamo di fronte a dei veri esperti in materia di marca, tanto da meritarsi l’appellativo di brand child (4); secondo, sono spesso molto più competenti dei loro genitori o parenti su nuove tecnologie e prodotti multimediali; terzo, sono i più informati sui nuovi prodotti perché sono loro i principali destinatari del fiume di messaggi veicolati quotidianamente dai media (circa 22.000 l’anno). Questo ha portato i creativi ad attuare un nuovo “stile comunicativo”, il dual messaging, soprattutto per la comunicazione commerciale di prodotti per la casa e la famiglia: circa l’80% dei messaggi sarebbero già strutturati a due livelli, uno diretto ad un target adulto e l’altro (meno evidente) rivolto ai tweens.
3. Age compression: la “sindrome Lolita”
Già da tempo i pubblicitari e gli strateghi del marketing si sono soffermati sul concetto di “cool”, che a differenza del più innocuo trendy, racchiude in sé un messaggio molto violento: il contrario di cool è, infatti, looser, cioè “perdente”. Gli adulti non sono cool. I cibi sani non sono cool. Essere cool “means having something that others don’t. It makes a child feel special and pushes him to seek the latest cool product” (5).
Oggi assistiamo ad una ulteriore evoluzione del termine: l’American Heritage College Dictionary ha definito nell’edizione del 2002 il termine edgy come “audace, provocatorio, che instaura una tendenza”, e questa qualità è attribuita dai pubblicitari a prodotti rivolto ai tweens, in particolare nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. Sfruttando la naturale tendenza del bambino ad essere attratto da chi ha qualche anno più di lui (i tweens ammirano gli adolescenti, i teenagers i ventenni), non c’è da stupirsi se i bambini e le bambine di otto anni si atteggino come i loro fratelli maggiori, andando incontro alla cosiddetta “sindrome di Lolita” (6).
L’espressione age compression indica proprio il fatto che: “… prodotti o messaggi originariamente pensati per i più grandi vengono adattati ai più piccoli, offrendo così ai bambini prodotti e stili studiati per gli adolescenti […]. Al centro c’è il concetto di “aspirazione”: così come gli adolescenti sono aspiranti ventenni, gli undicenni sono aspiranti quindicenni” (Oliverio Ferraris 2008, 72).
La Mattel, come altre aziende di giocattoli, si è presto resa conto di questa compressione: oggi la già citata Barbie regge ancora sul mercato ma con la differenza che, mentre prima il target era rappresentato dalle bambine della scuola primaria, oggi la bambola dai fianchi stretti e dal corpo sinuoso vede “restringersi” il campo all’età prescolare. E, come per altre aziende di giocattoli, ciò ha determinato un cambio di strategia: primo, per i giocattoli tradizionali, rendere ancora più intenso il battage poiché il target si è ridotto alla fascia 0-5 anni; secondo,
immettere sul mercato nuovi giocattoli per la fascia tweens, ma con alcuni accorgimenti. Per la Mattel, per esempio, si è trattato di copiare le bambole di un’azienda emergente che aveva incominciato a produrre le Bratz, bambole sempre all’ultima moda e sexy, con l’hobby più dello shopping che del tennis (attività tipica della Barbie). L’ultima versione della Barbie non ebbe lo stesso successo delle Bratz, le quali però vivono oggi un ulteriore restringimento del mercato: sembra che siano effettivamente le preferite dai tweens, ma solo fino ai sette anni.
A partire dagli otto anni l’interesse è rivolto ad altro, ai capi di abbigliamento e agli accessori copiati dalle star della musica leggera o dai personaggi dei telefilm per adolescenti: “se la ragazzina imita le pop star, i personaggi televisivi e le sorelle maggiori, significa che vorrà sfoggiare lo stesso look vivace dei suoi idoli” (7). Anche il settore musicale ha scoperto questa tendenza: basti pensare al fatto che sono proprio le “cantanti Lolite” come Britney Spears o Christina Aguilera ad essere maggiormente presenti sui canali dedicati ai bambini, quali Nickelodeon, Disney Channel, Fox Family…
4. Ritorno al villaggio?
Le seduzioni che arrivano da ogni dove stanno creando ansie e senso di impotenza ai genitori, tra l’altro vessati da messaggi pubblicitari che tendono a minarne l’immagine e a ridicolizzarne il ruolo.
Secondo la psicoterapeuta dell’età evolutiva Anna Oliverio Ferraris, la comunicazione pubblicitaria inculca al bambino in maniera sempre più raffinata l’idea che i prodotti pubblicitari sono proprio “per lui”, e quindi che un genitore che non compra quei prodotti è davvero “cattivo” perché non viene incontro a richieste più che legittime. In questo modo la pubblicità è in grado di determinare uno stato di insicurezza e infelicità nel bambino che non possiede quel dato prodotto. Si tratta di un meccanismo ben conosciuto, che però fino a poco tempo fa attribuivamo
esclusivamente al (pre)adolescente, e che oggi colpisce anche le fasce d’età più precoci. Ecco che il mancato possesso dello status-symbol del momento può creare una “vera e propria ferita narcisistica” anche nel bambino più piccolo.
Davanti a questa situazione, lo scontro genitori – media assume le sembianze di una lotta impari. E’ vero che il fenomeno della mentalità materialistica non è nuova, avendo colpito più di una generazione almeno a partire dal secondo dopoguerra, ma ciò cui si sta assistendo in questo ultimo decennio effettivamente non ha precedenti. La pervasività dei nuovi media e l’aggressività dell’advertising, l’accesso libero a messaggi d’ogni tipo fin dalla tenera età, gli scambi di informazioni facilitati dall’elettronica, le nuove forme di interazione online stanno sicuramente sopraffacendo le classiche agenzie formative e di socializzazione spesso già indebolite per una loro evoluzione interna: famiglia, scuola, associazionismo.
In questi ultimi anni si stanno non a caso sviluppando corsi di coaching per genitori, occasione di incontro e sostegno reciproco che faccia sentire l’adulto meno solo di
fronte a questo problema8. La cosa interessante dal punto di vista sociologico è che si sta affermando un paradigma che sembrava ormai sorpassato, e cioè la consapevolezza che l’educazione delle nuove generazioni sia una responsabilità sociale e non più individuale, cui devono concorrere tutte le agenzie educative, congiuntamente. Davanti al rimpallo di responsabilità cui stiamo assistendo oggi tra famiglia, scuola, istituzioni e media, l’unica via d’uscita sembrerebbe proprio quella di lavorare insieme affinché si possano inoculare nei giovani e giovanissimi i necessari “anticorpi” in grado di farli uscire dal “narcisistico torpore” preconizzato da McLuhan, e al quale – è bene ricordare – non sfuggono nemmeno gli adulti.
BIBLIOGRAFIA:
Bartel Sheehan, Kim, Controversies in contemporary advertising, SAGE 2003 Del Vecchio, Gene, Creating Ever-Cool: A Marketer’s Guide to a Kid’s Heart, Pelican Publishing 1997
Lindstrom, Martin, Brand Child. Remarkable Insights Into The Minds Of Today’s Global Kids And Their Relationships With Brands, Kogan Page, 2005
Linn, Susan (2004), Il marketing all’assalto dell’infanzia. Come media, pubblicità e consumo stanno trasformando per sempre il mondo dei bambini, Orme, Milano 2005
McLuhan, Marshall (1964), Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 2008
Oliverio, Luca (2005), Tra influenza, pubblicità e marketing… un dialogo con la dottoressa Oliverio Ferraris in www.comunitazione.it
Oliverio Ferraris, Anna, La sindrome Lolita. Perché i nostri figli crescono troppo in fretta, Rizzoli Milano 2008
Querzé, Rita, Figli difficili da allevare genitori a lezione dal coach, Repubblica, 08 novembre 2008
Note:
(1) Amy Frazier, Market Research: The Old Nagging Game Can Pay Off for Marketers”, Selling to Kids 3 (8), 15 aprile 1998; cit. in Linn (2004).
(2) “PBS Partners with Ragdoll Production and the Itsy Bitsy Company to Air Innovative Preschool Series Teletubbies”, disponibile su pbs.org.
(3) Bartel Sheehan (2003).
(4) Lindstrom (2005).
(5) Del Vecchio (1997).
(6) Oliverio Ferraris (2008).
(7) Greenberg et al., “What the Girl Like and Want”, cit. in Linn (2008).
(8) Querzé (2008).
Nota: Questo articolo è pubblicato su www.ticonzero.info