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Intervista a Libero Rossi – Presidente della Funzione Pubblica Cgil Mibac
Dopo il terremoto scatenato dalle dimissioni di Settis e le conseguenti reazioni da parte del Consiglio Superiore per i beni culturali, secondo lei è giusto affermare, così come molti giornali hanno decretato, che siamo arrivati alla “partita finale”?
Da molto tempo il Consiglio superiore dei beni culturali era sotto pressione e tutto è precipitato con la costituenda Direzione generale dei musei. La situazione va però incorniciata in un quadro più ampio: nei prossimi due anni il Ministero sarà oggetto di un taglio profondo pari a circa un milione di euro. Una vera e propria stangata su un dicastero che è stato oggetto di continui tagli di budget fin dal governo Prodi. L’obiettivo di rientrare nei parametri di Maastricht, ha infatti colpito in primis le spese di funzionamento, come misure “idonee al contenimento della spesa e alle limitazioni degli sprechi”.
Il Ministero dei Beni Culturali, inoltre, continua ad avere difficoltà di spesa: i fondi accreditati dalla legge finanziaria, infatti, vengono messi a disposizione solo alla fine di ottobre, in ritardo per attivare le adeguate azioni di assegnazione, di appalto.
Ma il vero problema riguarda l’incapacità di progettare: si è verificato, ad esempio, che in alcune Soprintendenze si siano formulate richieste di impegno senza nessuno schema di progetto alla base.
Il Ministero dunque soffre di immobilismo e di congestionamento che non inizia certo con il ministro Bondi. La situazione era critica con Urbani, e prima ancora con la Melandri e con Veltroni. Quest’ultimo , nonostante l’avvio di un tentativo per ovviare a tale criticità, non è riuscito comunque a raggiungere gli obiettivi sperati in quanto i limiti organizzativi, l’assenza di ricambio di personale (nonostante il concorso di 500 unità e dei 1000 assistenti tecnici museali) o i tagli agli investimenti, erano fardelli troppo pesanti per una ripresa o un cambiamento a breve termine.
Il Consiglio superiore per i beni culturali è composto dai designati del Ministro, dai presidenti dei Comitati tecnico-scientifici, dai designati dalla conferenza unificata e dai rappresentanti del personale Mibac. All’interno del Consiglio le tre sigle del sindacato si sono mosse in modo organico?
Il Consiglio superiore è un organo di consulenza che fornisce pareri che sono vincolanti sul programma economico di spesa. Nella formazione del Consiglio, rinato nel 2006 per volontà del ministro Rutelli, i rappresentanti del personale sono entrati in extremis, con l’intento di garantire che tutti gli aspetti riguardanti il personale venissero trattati da persone che conoscessero il funzionamento delle professionalità e delle dinamiche sindacali. La presenza di questa componente si è dimostrata utile, se non determinante, a rendere edotte le personalità del mondo accademico sul funzionamento della macchina burocratica e sul corredo di informazioni indispensabili alla tutela del lavoro e delle relative professionalità, elementi questi altrimenti non raggiungibili.
Complessivamente, nel rispetto delle differenze tra le singole anime del Sindacato, posso dare un giudizio positivo sul nostro ruolo all’interno del Consiglio. Questo lo dico mentre auspico una maggiore partecipazione da parte dei lavoratori: alle ultime elezioni per la scelta dei rappresentanti, ad esempio, meno del 50% degli aventi diritto (dai sovrintendenti ai custodi) ha partecipato. Un dato assolutamente negativo sul quale dovremo riflettere.
Con le dimissioni di Settis si apre una incrinatura in un quadro istituzionale non chiaro e in continua evoluzione. Lei cosa ne pensa?
Nella situazione attuale, direi che il Ministero è completamente esangue. Le dimissioni di Settis, paradossalmente, hanno significato chiarezza dopo tante oscillazioni e incomprensioni. Aspettiamo le mosse di Andrea Carandini che però, senza un interlocutore attento e deguato, e a mio parere il ministro Bondi non lo è, avrà difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi che secondo norma annuncerà.
Tutti al Mibac continuano a pensare il loro ruolo in termini di conservazione/restauro o alla tutela dei beni culturali, che è cosa nobile, ma non sufficiente alla piena mise en valeur del nostro patrimonio storico e culturale. Negli anni ‘80 si tentò un approccio diverso, classificando le nostre ricchezze quali “giacimenti culturali”; si impegnarono risorse per 600 miliardi di lire, si avviarono nuove leve di giovani qualificati il cui risultato finale fu un mezzo disastro. L’idea che i beni culturali siano il vero e proprio petrolio del Paese e per questo vadano valorizzati/sfruttati, è senz’altro nefanda come pure l’immobilismo del Ministero. Cosa quest’ultima che fa cadere le potenzialità insite dall’essere parte del CIPE e gli fa perdere la possibilità di conquistare un ruolo centrale nelle operazioni/transazioni riguardanti l’indotto sociale ed economico che ruota attorno i beni culturali (turismo, ricettività alberghiera, sviluppo del territorio ecc).
Il risultato è che oggi città quali Venezia, Firenze, Pompei si “consumano” e si degradano a vista d’occhio a causa dello sfruttamento selvaggio di cui sono fatte oggetto, conseguenza questa del mero uso a fini economici di cui sono vittime sacrificali.
Non credo che il consigliere Resca riuscirà a debellare questi fenomeni di gestione e funzionamento, in quanto lui stesso è più legato a logiche manageriali, esterne, che non ministeriali: presentandosi a Brera, per esempio, ha infatti dichiarato le gravi situazioni economiche in cui versa il Ministero, annunciando tagli alla spesa, alle assunzioni e concludendo però con un incoraggiamento a lavorare di più e meglio pur senza risorse. Da un alto dirigente dello Stato che percepisce qualcosa come 250 mila euro, mi sarei aspettato soluzioni più geniali, o comunque più interessanti rispetto ai soliti e semplici tagli di personale e fondi.
Questa ferita si è aperta in un momento difficile che vede alle porte la preparazione dei bandi per la gestione integrata dei servizi aggiuntivi, con allungamento degli affidamenti per incentivare le imprese ad una maggiore promozione e valorizzazione degli attrattori culturali. A che punto siamo?
Sui servizi aggiuntivi niente di eclatante può essere attuato finché non si uscirà dalla logica dei servizi aggiuntivi, ancora percepiti come una “seccatura”.
Il ministro Ronchey, che li lanciò per la prima volta nel 1993, ebbe una intuizione eccellente che però ora è insufficiente se non inane, continuando ad essere privata di una fitta rete di offerte, di collaborazioni e di potenziamento della qualità museale.
La Reggia di Caserta rappresenta a questo proposito un caso esemplare, in cui non è ipotizzabile pensare ad una sua giusta promozione e ritorno economico finché la direzione, così come la sovrintendenza, non agiranno per bloccare l’assalto degli ambulanti e delle vendite abusive e scriteriate.
Parliamo di Confcultura. Qual è stato il ruolo che ha assunto in questa crisi e quale quello che potrebbe assumere in futuro?
Come Cgil, abbiamo salutato la nascita di Confcultura in quanto pensavamo fosse di stimolo per i servizi culturali riunire i diversi enti in un unico interlocutore.
Occupandoci di contratti, inoltre, poteva rappresentare un passo in avanti per la riunificazione dei trattamenti privati e pubblici. Purtroppo Confcultura, nel tempo, ha deluso le nostre aspettative anche sul piano delle proposte che ha presentato: se all’inizio convogliavano studi e analisi interessanti – con dati difficili da reperire – oggi non riescono più ad interpretare, a raccontare e ad essere di stimolo per il settore.
Il 9 e 10 febbraio c’è stato il referendum sul contratto del biennio economico 2008/2009 organizzato dalla Fp Cgil. Quali sono stati i risultati ottenuti?
Il referendum era una necessità a cui dovevamo adempiere per immettere nel pubblico impiego forme di rapporto e di democrazia diverse con i lavoratori, senz’altro più partecipate, dirette, e più durature al fine di garantire un nuovo diritto sulle questioni inerenti il loro rapporto di lavoro.
All’interno dei contratti noi abbiamo chiesto chiarezza su due punti principali: il recupero dei soldi sottratti dalle politiche di Tremonti ai lavoratori con la legge133 (che hanno fruttato allo Stato 800 milioni di euro) e il precariato, che vede la perdita del posto di lavoro di circa 60.000 dipendenti precari. Nonostante le difficoltà e gli ostacoli incontrati, il referendum ha avuto un riscontro positivo, con la partecipazione a livello statale del 50% dei lavoratori, percentuale più alta degli iscritti alla Cgil (ma anche superiori a quelli di Cgil, Cisl e Uil insieme). Tale dato va però inserito in una dialettica più ampia, che mette in luce anche i nostri punti deboli, cioè un certo isolamento della Cgil operato dai diversi soggetti partitici e governativi, che tuttora permane, nonostante il cambio nel PD.
Il biennio 2009/2011 vede cifre allarmanti sulla richiesta di cassa integrazione da parte di lavoratori, accompagnati da un indice di disoccupazione altissimo. Rispetto ai dati Cgil, Uil Cisl, quale sarà la ricaduta sul comparto dei beni culturali?
Ciò che abbiamo fatto al Mibac è stato, in primo luogo, la stabilizzazione dei precari cosiddetti storici, “entrati” a partire dal 1987/2000: le ultime 2.200 persone che ancora si trovavano in una condizione lavorativa incerta, sono state inserite nell’organico a tempo pieno, e speriamo che lo stesso si possa fare con gli assistenti tecnici museali, stabilizzati tuttora solo per il 50%.
In questi anni le singole soprintendenze, a livello periferico, hanno chiamato giovani laureati a servizio nelle diverse biblioteche e negli archivi, per la catalogazione di libri e documenti antichi guadagnando circa 600/700 euro al mese. Con la scoperta della crisi economica, oltre a interrompere le collaborazioni con questi giovani laureati, si è provveduto ad eliminare tutti i collaboratori quali co.co.co o co.co.pro. che, secondo l’amministrazione, sono circa 185 (cifra secondo noi sottostimata).
I precari nella pubblica amministrazione sono oggi circa 60.000 e a nulla sono servite le manifestazioni organizzate per tentare di fermare i licenziamenti che vanno ad aggiungersi ad un immobilismo nelle assunzioni e alla riduzione del 10% del personale in servizio.
In questo momento solo un concorso previsto dal già ministro Rutelli nella finanziaria del 2008, darà la possibilità di ottenere un posto di lavoro a 500 persone che, a maggio, tenteranno la seconda prova di selezione. Dopodiché, con il turnover ridotto all’8%, non si riusciranno a rimpiazzare i pensionamenti e, dal prossimo anno, la riduzione in percentuale dei posti renderà ancora più lento il ricambio generazionale. Se ora siamo 22.000, tra qualche anno rischieremo di dimezzarci per via dei pensionamenti non rimpiazzati.
Nel forum della Fp Cgil emerge che lei è apprezzato, ma anche molto discusso dal suo popolo. In uno scampolo di un suo intervento (Prove di commiato), cita Peppino Di Vittorio con il suo “riscatto del lavoro”. I giovani che si avvicinano a questa professione, possono ancora trovare un loro affrancamento lavorando nei beni culturali?
In questo paese è presente una notevole incongruenza: da una parte abbiamo infatti una classe politica chiamata a dirigere il Paese che non riesce ad interpretare i bisogni e le esigenze di cambiamento, dall’altra il mondo dell’Università, che si è buttato a capofitto nell’ambito della benistica culturale aprendosi ad una formazione copiosa e indiscriminata.
Inizialmente è stata una cosa positiva, ha suscitato interesse nei giovani e ha portato alla formazione di figure professionali valide, ma quello che nel tempo è mancato è stato il datore di lavoro, con una domanda praticamente nulla rispetto a una numerosissima offerta. Il richiamo a Di Vittorio era un omaggio all’uomo, alla sua Cgil, ai lavoratori e anche a quelli che un lavoro, purtroppo, non ce l’hanno.
A tal proposito, servirebbe un grande cambiamento politico e sociale, nel quale torni centrale la forza della cultura: sì! Quella che avvicina etnie e rende tolleranti. Il Ministero dei Beni Culturali, e conseguentemente i vari governi succedutisi, dovevano fornire mezzi e risposte che non ci sono fin’ora state e che neanche si intravedono. In un paese in cui la classe dirigente è incapace di investire ma anche di indirizzare, diventa difficile per i giovani trovare il proprio riscatto nel lavoro. Se questo paese si ritrova quindi nella condizione per cui non si può infondere fiducia e speranza di progresso nei giovani, allora credo sia meglio chiudere i battenti; poco importa se ai vertici ci sia il bastone della destra, del centro o della sinistra.
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