Secondo l’Unesco, l’Italia è il Paese che possiede oltre la metà del patrimonio artistico mondiale. Alcuni lo hanno definito il nostro petrolio. Eppure, assieme a questo straordinario e insuperabile primato, fino a non molti anni fa ne abbiamo detenuto anche un altro, decisamente meno invidiabile: quello dell’incuria e della negligenza nella sua gestione.
Da qualche tempo, per fortuna, sembra essersi invertita la rotta. Sulla scorta di quanto avviene già da tempo all’estero ”“in fatto per esempio di orari di apertura dei musei, di defiscalizzazione delle erogazioni liberali a favore di progetti culturali, di aziende che investono nel settore artistico- anche in Italia si comincia a comprendere che la cultura può davvero rappresentare una risorsa economica da utilizzare sapientemente. E che il patrimonio artistico può generare, non solo ritorno d’ immagine per il Paese, ma anche reddito per chi se ne prende cura, e qualità della vita per chi ne fruisce.
Naturalmente, i beni culturali non sono beni qualsiasi. Sono beni unici. E come tale richiedono una gestione molto oculata. Come scrive il presidente del FAI ”“ Fondo per l’Ambiente Italiano, Giulia Crespi: “La gestione del bene culturale non rende come una fabbrica di bulloni o di filati, è un lavoro a parte, presuppone una forte spinta ideale e un sostanziale disinteresse”¦”.
Queste affermazioni risultano ancor più significative se lette alla luce dell’itinerario legislativo che l’Italia ha compiuto in questo campo nei pochi anni che vanno dalla Legge Ronchey (4/1993), che ha introdotto i primi elementi di innovazione nella gestione museale, sino ai provvedimenti della finanziaria 2001 che ha dato la possibilità di attribuire la gestione di alcune aree culturali a soggetti privati.
In questo arco temporale relativamente ridotto si è dunque aperta la possibilità , per le organizzazioni del settore nonprofit di fare dei beni ambientali e culturali la propria area principale di attività , anche in collaborazione con l’amministrazione pubblica, che di molti di questi beni è proprietaria. Prendiamo, ad esempio, una cooperativa sociale che operi per garantire un lavoro a soggetti svantaggiati e decida di operare in questo settore. Essa potrebbe gestire egregiamente un museo, operando in un settore ritenuto talvolta fonte di margini di profitto insufficiente dagli operatori a fine di lucro, ma in grado di fornire buone occasioni di occupazione, un risultato più interessante per la nostra cooperazione sociale.
Altre considerazioni inducono a ritenere che, fatta eccezione per pochi casi di altissimo valore ed attrazione, le nonprofit possano essere soggetti più adatti delle imprese a fine di lucro nella gestione del patrimonio culturale. Non è infatti insensato ritenere che, nonostante si diano possibilità di gestione più attiva e dinamica dei beni culturali rispetto a quelle finora condotte dall’amministrazione pubblica, la fruizione del patrimonio artistico e culturale sia comunque un’attività non remunerativa, con una domanda pagante insufficiente a coprire i costi.
In questo caso, quando non si possa fare conto sui trasferimenti dell’amministrazione pubblica, è necessario ricorrere alla benevolenza privata per pareggiare i costi. E sono proprio le organizzazioni nonprofit, grazie al vincolo sulla distribuzione sui profitti, i soggetti che più facilmente possono raccogliere donazioni.
Oltre alla presenza spontanea di organizzazioni nonprofit che hanno scelto di fare del settore dei beni culturali il proprio campo di attività, l’organizzazione senza fine di lucro -la fondazione- è stata riscoperta ed utilizzata anche dall’amministrazione pubblica come strumento per la gestione di alcune attività artistiche. Molte istituzioni pubbliche sono state così trasformate in “fondazioni” -Arena di Verona o Scala di Milano- o in fondazioni di partecipazioni, nella speranza di godere di forme più snelle di gestione e di attrarre capitali privati.
Ma l’assenza di un vero patrimonio in grado di generare redditi, l’adozione di modelli di gestionali non molto dissimili da quelli del passato e la scarsa attrazione per i donatori privati hanno fatto si che questi enti dipendano in maniera pressoché totale dai finanziamenti pubblici. Problema ulteriormente accentuato dall’adozione di modelli di governo e di gestione non tanto trasparenti quanto sarebbe auspicabile.
Insomma, quello che resta da capire è se le Nostre Grandi Fondazioni Culturali, che hanno nel loro statuto la salvaguardia culturale e paesaggistica del Paese, siano realmente delle Public Benefit (per usare una terminologia americana), cioè organizzazioni votate al benessere della società. O se siano invece delle Mutual Benefit, che perseguono prevalentemente l’interesse di alcuni loro membri.
Il confine tra i due è tutt’altro che semplice da definire. La stessa organizzazione può, infatti, perseguire sia il benessere dei membri che quello della società in generale. Si potrebbe poi discutere su cosa si debba intendere per “benessere della società”.

Riferimenti:
www.fondazioni.it

www.nonprofitonline.it