Intervista alla prof.ssa Renata Molinari – docente responsabile del laboratorio “Composizioni sulle mappe della città” della Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi – Fondazione Scuole Civiche di Milano

Sabato 13 e lunedì 15 marzo si sono svolte 2 giornate interamente dedicate alla drammaturgia e alla città di Milano. Ci spiega cos’è “Composizioni sulle mappe della città”?
“Composizioni sulle mappe della città” è un laboratorio che vede coinvolti attori, registi e drammaturghi della Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi- Fondazione Scuole Civiche di Milano, impegnati in una composizione comune “sulle mappe” della città che – almeno nei tre anni di corso, visto che la maggior parte degli allievi non sono milanesi – li ha visti intrecciare esperienze, scoperte, relazioni. Il termine chiave del laboratorio,  è appunto “composizione”: espressione che nella mia attività pedagogica privilegio rispetto a “improvvisazione”.
Si tratta, dunque, di mettere a fuoco ed applicare esercizi per comporre e rendere leggibile un immaginario condiviso rispetto a un testo, a un tema o a una condizione di partenza: in questo caso la città in cui viviamo.  Nel momento in cui più persone sono impegnate su uno stesso testo o, come in questo caso, sulla stessa mappa, gli esercizi di composizione guidano a intrecciare  i raccordi e le relazioni fra temi, proposte e soggetti diversi, attivandone il potenziale drammaturgico.  Le mappe su cui abbiamo lavorato sono molteplici: si va dalle vie di scorrimento  della città,  ai luoghi di aggregazione,   passando per le stratificazioni storiche o sovrapposizioni che in uno stesso segmento metropolitano si sono susseguite nel corso degli anni; sempre seguendo il filo delle relazioni umane.
Come spesso accade con i progetti ampi, si è arrivati quasi casualmente alla realizzazione di questo laboratorio. Il punto di partenza è stato però l’osservazione di una certa astrattezza, forse sarebbe più preciso dire genericità,  nelle proposte degli allievi. Lavorando  nel primo anno di corso con allievi drammaturghi e registi  sui Maestri del ‘900, ho avuto l’impressione che tutte le informazioni sui maestri del teatro, la forza delle loro intuizioni, le loro teorie e perfino le poetiche e le spinte ideali più condivise, stentassero a trovare  nel lavoro in classe un collegamento vitale con la nostra quotidianità. Per questo abbiamo deciso di alternare le lezioni frontali tradizionali con esercizi di osservazione concentrati soprattutto sul rapporto tra la scuola il luogo in cui si abita. Semplici osservazioni: chi incontro? cosa vedo nel percorso quotidiano da casa a scuola? cosa vedo e come posso raccontarlo, in un ritmo collettivo?
Nel secondo passaggio abbiamo  approfondito l’osservazione, che è diventata ricerca di punti di contatto tra il lavoro teatrale in senso proprio e l’osservazione della realtà che ci accoglie. Da questa seconda fase si è poi passati alla realizzazione di veri e propri racconti di situazioni legate al vivere e alla città. Come sempre quando si mettono a punto degli esercizi, nasce anche il piacere di scoprire le varianti. Abbiamo quindi cercato luoghi di Milano legati a precise vicende storiche: in questo caso il “compito” era quello di  cercare le relazioni  tra il passato e il presente, tracciate negli spazi osservati, e di giustificare, drammaturgicamente,  la presenza di un visitatore, di un osservatore in quel luogo. In questo modo si è passati dalla osservazione dello spazio all’attenzione sul soggetto che esplora il proprio territorio.

Quali sono state le difficoltà incontrate nello svolgimento del progetto, da parte sua e da parte dei suoi allievi?
Le difficoltà sono legate, sia per me che per gli allievi, al rapporto  tra la capacità di cogliere un’immagine e quella di raccontarla, raccogliendo in una forma appropriata ed efficace le conseguenze di una visione. Veniamo attratti da qualcosa che ci colpisce, ma a stento siamo in grado di riferirla in un linguaggio scenico o drammaturgico coerente con il punto di partenza.
L’altro grosso problema, che può suscitare anche maggiore difficoltà, riguarda l’ascolto: in un gruppo di circa 26 allievi ci si trova per la maggior parte del tempo ad ascoltare gli altri, pratica alla quale non siamo abituati, né educati. Al centro del lavoro non viene posta l’espressione, come si fa  spesso nel lavoro teatrale, bensì l’osservazione  e l’ascolto, due attività essenziali che paradossalmente risultano molto complesse.

Gli allievi del progetto sono stati poi protagonisti di una residenza di tre settimane presso gli spazi “Olinda”- Ex Paolo Pini. Perché la scelta di questo luogo?
Olinda è un interlocutore importante del nostro territorio per chiunque voglia provare ad uscire dai binari consueti della programmazione teatrale. Lo spazio di Olinda è quello dei laboratori, delle residenze, delle sperimentazioni, dei festival che fondano relazioni: luogo in cui la stessa attenzione al presente viene esercitata su diverse attività: dal teatro, all’ospitalità, all’attività sociale, alle energie alternative…  Olinda è diventata per noi una delle mappe della città: un luogo con stratificazioni precise che al tempo stesso si presta a una continua trasformazione. La residenza implica un viaggio, uno spostamento che, sia pur  faticoso,  aiuta a nutrire uno sguardo diverso e ad attivare un’attenzione necessaria.

Il progetto prevedeva delle collaborazioni con enti territoriali locali?
Non c’è stata una collaborazione specifica con enti locali, a parte la residenza negli spazi di Olinda. Tutto l’iter è stato organizzato e diretto dalla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Va però ricordata la stretta relazione con il Comune di Milano, che ha costituito e sostiene la Fondazione Scuole Civiche di Milano, di cui la Paolo Grassi fa parte. Questo presupposto, unito alla natura del lavoro, potrebbe – e dovrebbe- favorire in futuro collaborazioni specifiche verso progetti sempre più mirati e condivisi.

Quali sono stati i riscontri ottenuti dal progetto in termini di partecipazione del territorio locale?
Noi, di fatto, abbiamo realizzato le aperture all’interno dello spazio ex Paolo Pini e gli interlocutori sono stati principalmente i partecipanti della residenza. Il contatto con la popolazione locale è avvenuto nelle fasi precedenti in cui ci si è attivati alla ricerca di storie, di materiali che potevano andare a nutrire e a dare forma alle nostre riflessioni sceniche. Il procedimento è stato soprattutto di contagio: attivare domande,  interrogativi sullo stare in un luogo che è anche di altri, e sulla base di questo, rendere evidenti possibili corrispondenze e  proposte.

Pensa che questo esperimento sia adattabile anche in altre città diverse da Milano?
Sicuramente il processo di osservazione, ascolto, trasformazione dell’immagine in racconto e composizione di esperienze corali, è adattabile ad altre realtà.  Poi però ci sono delle specificità del progetto che sono tipiche della realtà milanese. In particolare, nel nostro caso, penso al rapporto fra la scuola di teatro e la città… 

Secondo lei, qual è il lato in assoluto “più teatrale” della città di Milano?
È difficile concentrare in un solo “lato” l’aspetto teatrale di Milano. Le proposte sono state interessanti e molto diverse tra loro: una che ha attivato numerosi collegamenti, riguardava ad esempio le tracce del lazzaretto. Trovare dei richiami nelle strade, capire come queste sono cambiate, chi le abita ora, chi ne ha parlato, quando, cosa ha significato, quali sono le strutture analoghe, l’ospedale psichiatrico, le sue porte d’ingresso e di uscita….  Un’altra proposta molto interessante riguardava  i luoghi di lavoro precario dei giovani rispetto al vivere la città: il rapporto fra lavoro creativo e precarietà, questo è un aspetto che mi piacerebbe approfondire. E ancora “la grandezza e le tenebre” ( l’espressione è di Anna Maria Ortese) della stazione centrale, l’enigma di Piazzale Loreto, sospeso fra passato e futuro, le attività all’ombra del duomo, la babele delle lingue e la scoperta di radici,  le schegge di autori che hanno illuminato, e illuminano,  l’umanità delle vecchie e nuove periferie, i miraggi di cambiamento e la necessità di inventarsi nuovi percorsi, le metamorfosi dei vecchi…Quando si percorre un territorio scopriamo molto non solo sul territorio, ma sulla nostra postura percettiva, sul nostro essere in cammino.

Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Continuare a camminare, con le dovute soste. Il laboratorio è appena finito e ora dobbiamo fermarci un po’ per metabolizzare i risultati ottenuti. Mi interessa lavorare metodologicamente su questi aspetti e mettere a fuoco percorsi più mirati su singole situazioni milanesi. Pensare di attivare un secondo laboratorio è sicuramente stimolante perché vuol dire coinvolgere nuovi gruppi e costruire delle situazioni di ulteriore apertura. Per il momento, però, credo che sia importante fare una pausa affinché queste aperture mantengano il loro carattere di necessità.