Forme eleganti, linee trasparenti, proporzioni perfette: questa è l’Alumix, lo stabilimento di Bolzano della Montecatini, costruito negli anni Trenta secondo il canone razionalista: non solo una pregevole testimonianza dello stile di un’epoca contraddittoria, ma la rappresentazione di un processo storico unitario interpretato secondo due ottiche speculari. Per la parte tedesca dell’Alto Adige diventerà il simbolo di una drammatica trasformazione che va dall’annessione all’Italia fino al grande boom nel secondo dopoguerra. Viceversa, per gli altoatesini di parte italiana, questi edifici sono tra i pochi segni tangibili della loro storia, ancora breve.
Risale al 1929 il concorso fra i più rinomati architetti indetto per ampliare la città di Bolzano: essa avrebbe dovuto trasformarsi da città tedesca di 30 mila abitanti in città italiana di 100 mila persone.
Nella piana della Val d’Adige a sud di Bolzano fu individuata nel 1934 una zona industriale di 300 ettari, un’area grande come 400 campi di calcio, che costituiva un quarto della superficie dell’intera città. La Montecatini deteneva in quegli anni il 60% della produzione di energia in Alto Adige. 
Fu così che il ronzio delle turbine divenne il sottofondo per fantasmagoriche visioni di grandezza e progresso.
La parte più appariscente dello stabilimento è costituita dai due edifici a due piani che contenevano i trasformatori e le cui pareti esterne in mattoni rossi nascondono una struttura in cemento armato. Questo monumento in rosso, un gigante in ebollizione che inghiottiva torrenti di energia per soddisfare la fame di alluminio dell’industria italiana, è oggi un tempio di archeologia industriale e l’intera area che occupa è diventata di grande rilevanza storica, sottoposta perciò a tutela.
In un contesto di così grande suggestione, il rischio di produrre un’esperienza non all’altezza è forte.
Ma non è stato di certo questo il caso. Innanzitutto grande attenzione scenografica è stata data alle luci d’ambiente all’esterno e a quelle di scena nei locali industriali che hanno ospitato lo spettacolo.
La vasca-piscina centrale, posta di fronte all’ingresso a creare profondità e richiamare il ruolo  cruciale dell’acqua nella produzione di energia, era avvolta da una accogliente luce rossa calda e tenue.
Lateralmente, il serbatoio d’acqua a torre (già simbolo di modernità) era invece illuminato con luce cangiante, volta ad impreziosire una pittura rampicante raffigurante una città caotica mista a vegetazione che si avvita vorticosamente verso l’alto fino a dissolversi.
Il flash del neon intermittente evocava invece, dietro le grandi vetrate dall’andamento ritmico della facciata d’ingresso, i bagliori di un tempo nei lunghi capannoni con i forni di fusione.
Dentro, nella sala dei trasformatori che convertivano da alternata a continua la corrente che alimentava i forni, un pianoforte a coda lunga, nero. E l’attesa, della sacerdotessa Diamanda.
Sarebbe infatti riduttivo dire che “Your kisses are like fire” è un recital pianistico; si tratta semmai di un rito condotto dalla Galas in veste di medium-traghettatrice verso spazi inediti: l’artista si è fatta interprete della disperazione, del dolore straziante di chi è strappato al proprio amore, di chi è costretto con la forza a separarsi, forse per sempre, da ciò a cui è più intimamente legato.
Un grido di rabbia e a tratti di vendetta misto a sussurri di compassione e preghiera, un incedere che mitologicamente si addentra per spirali nell’abisso più cupo ed è capace di elevarsi alle vette più abbaglianti, lancinanti, accompagnato da un piano percosso con impeto primordiale.
La scena scarna, oscura, il piano al centro, orientato in obliquo, a mostrar la tastiera al pubblico.
La Serpenta quasi di spalle, scoperte, ha mostrato solo un paio di volte il suo viso e concesso con fermezza due inchini in tutto, al momento del bis e per il saluto finale. Il pieno controllo delle quattro ottave di estensione vocale le dona un’immensa libertà creativa che lascia stupefatti e talvolta fa passare in secondo piano l’accompagnamento musicale.
Le luci di scena sono state sapienti complici durante le continue e imprevedibili discese e risalite. Per iniziare, a sottolineare la natura semidivina di chi avevamo di fronte, un cono d’ambra zenitale appena davanti al volto della cantante. Caravaggesca, dalla destra, una luce chiara a indicare forse un approdo o una origine.
Lo spettacolo è durato circa 90 minuti e ha attraversato molte sonorità mediterranee, dalla Grecia alla Spagna, passando per due fra i più grandi interpreti della musica del Novecento, Edith Piaf e Jacques Brel. I testi impegnati, a dar voce ai senza voce, e il corpo dell’artista a incarnarne più che la sofferenza il coraggio di resistere, di esistere amando. Un programma coerente e raffinato, musicato dalla Galas, con molti omaggi a poeti maledetti come Celan, Michaux e Kavafis.
Un festival che ha registrato pubblico ed entusiasmo in aumento, Transart quest’anno ha ospitato due fra le più intense espressioni di creatività al femminile (martedì 14 settembre è intervenuta anche Patty Smith con il concerto intitolato “Seeds in the wind”) e ha dimostrato che a Bolzano il contemporaneo ha le sue ragioni. Anche attraverso la Zona industriale di Bolzano sud e il flusso immigratorio che la sua creazione determinò, l’Alto Adige è potuto divenire un territorio plurilingue, realizzando quella simbiosi di due culture che oggi è parte integrante del suo fascino.