La LEGGE 30 dicembre 2010, n. 240, nota come Riforma Gelmini, stabilisce le “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico  e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”. Si articola in tre Titoli, per un totale di 27 articoli.

 Il Titolo I, che si occupa della “Organizzazione del Sistema Universitario”, è suddiviso in tre Articoli.

L’Articolo 1 definisce i Principi ispiratori della riforma, nobili principi che suonano tuttavia beffardi in un contesto di tagli strutturali al sistema universitario nel suo complesso, che incidono ancor più severamente in una situazione di sottofinanziamento sistematico dell’Università e della Ricerca Scientifica Pubblica rispetto agli altri paesi sviluppati dell’Unione Europea (ed anche rispetto a molti paesi meno sviluppati). Sottofinanziamento che diventa drammatico se ci confrontiamo sullo scenario internazionale con quello di paesi come gli Stati Uniti e il Giappone, per non parlare dei cosiddetti paesi emergenti, Cina, India, Brasile …

Del resto, i nobili principi ispiratori sono contraddetti nei fatti già dal corpo della Legge. A scanso di equivoci o fraintendimenti, la Riforma è improntata ad un solo principio reale, che viene ripetuto ossessivamente: le norme previste devono essere attuate invariabilmente “senza maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. La riforma copernicana del sistema universitario concepita dal Ministro Gelmini è dunque “a costo zero”. Nella congiuntura internazionale attuale, che vede i nostri competitori mantenere o aumentare il finanziamento all’Università e alla Ricerca Scientifica Pubblica, si tratterebbe dunque di una non-riforma o, quanto meno, di una riforma inutile, deludente, un po’ patetica. La montagna che ha partorito il topolino. Calza a pennello la metafora delle nozze con i fichi secchi. In realtà, poi, leggendo attentamente la Riforma, ci si rende conto che essa è anche peggiore. Tecnicamente, è una scatola vuota, che delega al Governo l’emanazione dei decreti attuativi che opereranno la riforma reale. Strategicamente, rappresenta un (potenziale o premeditato?) cavallo di Troia per operare un progressivo smantellamento del sistema universitario pubblico.

Superati di slancio gli Articoli 2 e 3, che definiscono in maniera molto asettica e neutrale gli “Organi e articolazione interna delle università” e delineano i criteri per la “Federazione e fusione di atenei e razionalizzazione dell’offerta formativa”, si arriva al corpo della Legge, la scatola cinese della Riforma, il Titolo II, che stabilisce le “Norme di delega legislativa in materia di qualità ed efficienza del sistema universitario”. Si scopre che al Governo (sotto il vigile controllo del Ministero dell’economia e delle finanze) è delegata la legislazione sulle più disparate materie: diritto allo studio (per esempio, l’ammontare del finanziamento del Fondo per il merito, la sua ripartizione, le norme concorsuali per accedere alle borse di studio, …), la valorizzazione della qualità e dell’efficienza delle università, la valutazione ex post delle politiche di reclutamento degli atenei, lo stato giuridico dei professori e dei ricercatori di ruolo, la revisione del loro trattamento economico (che comporta un risparmio per la finanza pubblica in un contesto in cui le retribuzioni degli universitari italiani sono già più basse della media europea; l’unica categoria ad avere in Italia retribuzioni MOLTO più alte della media europea è quella dei parlamentari) …

Il Titolo III, che delinea alcuni aspetti espliciti della riforma, esordisce con l’Articolo 15, che fissa le linee guida per il riordino dei settori concorsuali e scientifico-disciplinari, delegando al Ministro l’emanazione dei corrispondenti decreti attuativi. L’Articolo 16 istituisce l’abilitazione scientifica nazionale, modificando le procedure del reclutamento universitario e rendendo impossibile ogni reclutamento fino all’emanazione dei decreti attuativi e alla designazione e insediamento delle commissioni nazionali.

L’Articolo 18 fissa le norme per la chiamata dei professori, l’Articolo 19 contiene le disposizioni in materia di dottorato di ricerca. L’Articolo 20 si occupa della valutazione dei progetti di ricerca, l’Articolo 22 fissa le norme relative agli assegni di ricerca, l’Articolo 24 stabilisce la definitiva messa in esaurimento della categoria dei ricercatori universitari a tempo indeterminato e istituisce la figura del ricercatore a tempo determinato. La Legge si conclude con l’Articolo 29, che detta le norme transitorie e finali.

Esaminando il testo della Legge, appare evidente che la vera riforma, che non ci è dato conoscere, sarà operata successivamente dai decreti del Governo. Cerchiamo di capire allora quali sono i punti nevralgici della Legge e perché la Riforma, che si presenta sotto il modesto profilo di una non-riforma a costo zero, dà in realtà mano libera al Governo per operare tagli significativi sul sistema universitario.

Per esempio, in materia di valutazione della didattica e della ricerca è difficile immaginare che il (tanto auspicato) sistema di valutazione dell’università possa essere strutturato in maniera seria ed efficiente senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica.
La questione della ripartizione dei finanziamenti sulla base del merito e dell’efficienza è indubbiamente rilevante e andrebbe presa seriamente. Ma la premessa di ogni criterio di qualità dovrebbe essere un finanziamento dell’università e della ricerca pubblica almeno ai livelli degli altri paesi sviluppati dell’Unione Europea. In un contesto di finanziamenti adeguati, avrebbe senso ripartire i fondi secondo criteri meritocratici. Nel contesto italiano, in cui a gennaio 2011 i gruppi di ricerca che hanno presentato domanda alla scadenza del bando nel 2010 non sanno ancora se i finanziamenti relativi ai Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale del 2009 (sic!) sono stati approvati, è evidente che la questione dei criteri di ripartizione delle risorse appare del tutto secondaria. Qualche mente maliziosa, potrebbe anche immaginare che questa tecnica dilatoria operata dal governo abbia avuto lo scopo concreto di saltare a pie’ pari un intero biennio di finanziamento dei progetti di ricerca. Nella migliore delle ipotesi, i progetti del 2009 saranno finanziati nel 2011. Nei fatti, quindi, l’università non è percepita dal Governo come un settore strategico per lo sviluppo sociale ed economico del paese. Questa politica miope e fallimentare è anche una contraddizione evidente del principio ispiratore sancito nell’Articolo 1 della Legge.

Le norme per il diritto allo studio (che, secondo l’Articolo 3 avrebbero il nobile fine di “rimuovere gli ostacoli all’istruzione universitaria per gli studenti meritevoli e privi di mezzi”), suonano beffarde in un quadro di tagli pesanti al finanziamento del diritto allo studio. Vale la pena osservare poi che l’Articolo 4 introduce il prestito d’onore, trasformando gli studenti in debitori: paradossalmente, il debito è contratto per  l’esercizio di un diritto. Questa norma, già discutibile in linea di principio, diventa particolarmente  odiosa in una situazione nella quale si prospetta una (per alcuni versi auspicabile) razionalizzazione delle piccole università. In un tale contesto, gli studenti sarebbero discriminati su base meramente geografica, in assenza di un significativo (e oneroso per la finanza pubblica) intervento perequativo: l’accesso all’istruzione universitaria comporterebbe (e, di fatto, ha sempre comportato) costi maggiorati per le famiglie di quegli studenti che hanno avuto la sfortuna di nascere in città o province prive di sedi universitarie. L’introduzione del prestito d’onore eleva questa discriminazione di fatto al rango di discriminazione istituzionalizzata.

Anche in materia di reclutamento la Riforma ha obiettivi demolitori e discriminatori. E’ significativo e patetico al tempo stesso che una Riforma che ha ricevuto il sostegno pressoché unanime dei Rettori e l’approvazione diffusa tra i professori di prima fascia, ma è stata accolta tiepidamente dai professori di seconda fascia ed è stata avversata da ricercatori e studenti sia stata presentata dal Ministro come una riforma contro i “baroni”.
Basta leggere le norme relative al reclutamento e alla messa in mora della figura del ricercatore a tempo indeterminato per capire che gli unici a trarre un qualche (piccolo e miope) vantaggio dalla riforma sono proprio i “baroni”. Innanzitutto, la commissione nazionale per l’abilitazione nazionale di durata quadriennale, che attesta l’idoneità per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori, sarà composta da soli professori ordinari (con buona pace di chi si aspettava una riforma contro i baroni). Inoltre, la chiamata degli idonei sarà sempre prerogativa delle università: con la nuova procedura, un idoneo che non goda dell’appoggio dei baronati locali non ha nessuna maggiore speranza di essere chiamato di quanta non fosse la probabilità di vincere un concorso.
Solo un ingenuo (o una persona in malafede) potrebbe sostenere che il potere dei baroni si scardina cambiando le norme del concorso. In questo quadro di rafforzamento di fatto del potere baronale si inquadra anche l’istituzionalizzazione della figura del ricercatore a tempo determinato.

Pensate che un ricercatore a tempo determinato sia più libero e meno succube del potere baronale di un ricercatore a tempo indeterminato? Se rispondete sì, potete annoverarvi tra i pochi sostenitori della riforma Gelmini. Qualcuno obietta anche che in molti paesi i ricercatori vengono reclutati mediante la procedura del tenure track: il ricercatore a tempo determinato viene assunto nel ruolo di professore soltanto se supera una valutazione al termine del periodo di prova. Tuttavia, nei paesi in cui la procedura è in voga, il finanziamento per l’assunzione viene stanziato all’atto dell’inizio della procedura, cosicché il ricercatore è certo che, se supererà la valutazione finale, sarà assunto. La Riforma Gelmini stabilisce invece che il ricercatore verrà assunto se supererà la valutazione e SE la legge di bilancio dell’anno in cui la valutazione avverrà prevederà l’assunzione di nuovo personale docente, istituzionalizzando di fatto la precarietà del giovane ricercatore, indipendentemente dalle sue capacità. Infine, nel medio periodo, la riforma promuoverà un conflitto di fatto tra i ricercatori a tempo indeterminato in esaurimento, con le loro legittime aspirazioni di carriera, ! e i nuovi ricercatori precari che, al termine del contratto, perdono il posto se non vengono assunti come professori. E’ evidente che le magre risorse disponibili saranno in gran parte utilizzate per assumere i precari ed evitarne il licenziamento, piuttosto che per permettere l’avanzamento di carriera dei ricercatori a tempo determinato. Una guerra tra poveri.

Concludiamo questa breve analisi degli effetti deleteri della Riforma esaminando le norme in materia di Dottorato di Ricerca. Il titolo di Dottore di Ricerca, oltre che costituire il più alto titolo di istruzione riconosciuto dall’ordinamento italiano, costituisce titolo preferenziale per il reclutamento universitario. In Italia, l’accesso al Dottorato di Ricerca è regolato da un concorso locale. I vincitori afferiscono ad una graduatoria di merito in base alla quale vengono erogate le borse di studio, in numero definito.
Già da alcuni anni era previsto che gli idonei non vincitori di borse di studio potessero accedere al dottorato “senza borsa”, in numero massimo pari alla metà del numero totale dei dottorandi. Questa norma viene abolita dalla Riforma Gelmini, che rende di fatto possibile l’ammissione di tutti gli idonei “senza borsa”. In questo scenario sarebbe a carico delle famiglie anche la formazione dei dottorandi, che dovrebbe invece essere vista come strategica per il paese. La non-riforma non perde occasione per tradire nei fatti i suoi principi ispiratori. In un contesto internazionale in cui sarebbe auspicabile aumentare il numero (e l’entità) delle borse di studio per il Dottorato di Ricerca si rende possibile la loro progressiva riduzione.

Sergio Caprara è professore di Fisica Generale e membro del Dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza di Roma