Stiamo vivendo anni di profonda trasformazione, sociale ed economica.
Cambiamenti che spesso non riusciamo a cogliere né, tantomeno, a misurare. Una possibile spiegazione sta nel fatto che il nostro territorio è un sistema complesso, cioè un sistema dove le relazioni tra le parti che lo compongono sono l’aspetto più importante, tanto che se analizziamo le singole componenti non capiamo nulla del funzionamento complessivo. Anche le persone sono sistemi complessi, per esempio la sfera emotiva e quella relazionale sfuggono ad ogni nostro tentativo di
misurazione, eppure rappresentano l’essenza degli essere umani.
Dire che siamo un sistema complesso non è solo un esercizio di classificazione fine a sé stesso, ma implica una serie di cose e un salto culturale non indifferente. Per esempio la teoria della complessità afferma che “in un sistema complesso equilibrio, simmetria e stabilità significano crisi”.
Pensiamo a ciò che accade a noi, come persone. Coerentemente con la nostra visione ed i nostri valori ci poniamo degli obiettivi che il più delle volte mirano a conciliare e a tenere in equilibrio aspetti tra loro apparentemente contrastanti,
come famiglia e lavoro. È un equilibrio che sappiamo essere per natura instabile ed in perenne riconfigurazione, in quanto cambiamo noi, cambiano gli altri, muta l’ambiente nel quale viviamo. Per riuscire a mantenerlo, occorre rinnovarlo
continuamente, perché se non fossimo in grado di farlo evolvere parallelamente ai cambiamenti, probabilmente, come afferma la teoria della complessità, vivremmo uno stato di crisi.
Mentre come persone riusciamo a far evolvere il concetto di equilibrio, come sistema territoriale facciamo più fatica. I nostri numeri e – soprattutto – il percorso logico con il quale affrontiamo i cambiamenti vanno alla ricerca e danno valore ad un concetto statico di equilibrio. Non è un caso che da decenni ci affanniamo nel rincorrere attraverso vecchi modelli condizioni economiche e sociali raggiunte in passato e progressivamente smarrite. Come conseguenza di questo nostro
guardare all’indietro è che di fronte ai cambiamenti portati dalla globalizzazione ci spaventiamo perché non riusciamo più ad avere un punto di stabilità tra crescita economica e coesione sociale, come se queste due cose non potessero andare più insieme, essere in equilibrio.
L’attuale crisi economica la possiamo leggere come il non riuscire a tenere in equilibrio le contrapposizioni che ci hanno accompagnato nel corso degli ultimi decenni, a partire da quelli sottostanti al modello di sviluppo. Nel perpetuo processo
di metamorfosi strutturale ed organizzativa alla ricerca della competitività vi sono sempre stati due punti fermi, due fili rossi che ricorrevano costantemente.
Il primo filo rosso è che il successo del territorio nel corso dei decenni è sempre correlato alla emersione di imprese leader che hanno fatto da traino ad un vasto sistema di piccole imprese attraverso un forte legame di subfornitura. Il secondo
filo rosso riguarda un’altra tipologia di rete, quella sociale. La rete economica ha funzionato perché tra i cittadini c’è stata condivisione di valori ed obiettivi, coesione sociale, senso di appartenenza ed identità. D’altro canto la rete sociale funzionava perché l’economia garantiva livelli elevati e diffusi di benessere. Un circolo virtuoso completato da una buona amministrazione del territorio ed un sistema di welfare efficiente.
Caliamo questi due aspetti nel contesto socio-economico attuale. Le imprese leader stanno operando una selezione ancora più rigida dei subfornitori, alcune di esse stanno spostando la produzione fuori dai confini locali, altre stanno aprendo ad aziende subfornitrici localizzate all’estero. Quello che si sta verificando è un allentamento della rete che unisce le imprese del territorio. E le piccole imprese senza il traino di quelle più grandi nella maggioranza dei casi non hanno struttura,
competenze e cultura per poter competere.
Non è solo la rete economica ad indebolirsi, la loro minor competitività associata alla profonda trasformazione demografica sta riducendo la capacità di assicurare benessere diffuso sul territorio. Anche la rete sociale appare sempre meno capace di unire, l’economia segue strade sempre più lontane dalle istanze sociali, vi è uno smarrimento generale dovuto ad un’assenza di valori, ad un sistema di rappresentanza che fatica a rappresentare.
Possiamo leggere lo sfilacciamento dei due fili rossi da una differente prospettiva. Secondo l’economista Zamagni le crisi possono essere classificate in due differenti tipologie, dialettica ed entropica. La crisi dialettica nasce da uno scontro che prende corpo in determinate società e che contiene al proprio interno le forze per uscirne. La rivoluzione francese è un esempio di crisi dialettica. Entropica, invece, è la crisi che tende a far collassare il sistema per implosione, senza modificarlo. Questo tipo di crisi si sviluppa quando la società perde il senso – cioè, letteralmente, la direzione – del proprio incedere. La caduta dell’impero romano è un esempio di crisi entropica. La crisi attuale ha natura entropica e la perdita di senso è ben visibile in molte sue contraddizioni, dalla separazione della sfera economica da quella sociale, dal lavoro separato dalla creazione della ricchezza, dal mercato separato dalla democrazia.
A valutazioni analoghe giunge il sociologo Magatti secondo cui negli ultimi due decenni la crescita economica ha avuto come unico obiettivo un aumento indiscriminato delle opportunità individuali, nell’ipotesi che tale aumento costituisse un bene in sé, da perseguire comunque. Il profitto da mezzo e misura dell’efficienza economica si è imposto come fine in sé stesso, l’economia ha perso di vista qualunque dimensione sociale e di “senso”, cioè qualunque valutazione – di ordine sociale, politico o morale – che non fosse tecnica.
Dunque perdita di senso intesa come direzione smarrita, ma anche come perdita di significato dell’agire, dell’essere. Se così fosse l’attuale crisi economica sarebbe solo un fastidioso campanello d’allarme, un segnale di una crisi di ben più ampia portata che, forse, non abbiamo ancora compreso a fondo. La storia ci insegna che non si esce da una crisi entropica con aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti solo legislativi, ma è fondamentale affrontare di petto e risolvere la questione del senso.
Da qui occorre ripartire, dal riannodare i fili rossi, dal ridare centralità alla dimensione del senso, avere un senso individualmente e collettivamente. E, per quanto affermato dalla teoria della complessità, dobbiamo farlo cercando un
equilibrio dinamico. L’immagine della bicicletta comunica con efficacia l’equilibrio che dobbiamo ricercare: in bicicletta per non cadere è necessario combinare due polarità apparentemente opposte, il movimento e la stabilità. Si è stabili perché ci si muove, anche se le due cose sono viste come impossibili da tenere insieme, un po’ come la crescita economica e la coesione sociale. In bicicletta si ha un equilibrio instabile e, al tempo stesso, proficuo. Un equilibrio in movimento. Proprio come quello che dobbiamo mantenere, come persone e come sistema territoriale. Guidare il territorio come una bicicletta significa mediare su basi nuove, richiede la capacità di trovare una maggior armonizzazione tra individualismo e collettività, tra mercato e democrazia, tra coesione sociale e sviluppo economico attraverso modalità inedite.
Credo sia necessario cambiare il paradigma che ci ha accompagnato per anni. Abbiamo sostenuto che imprese competitive rendono il territorio competitivo – e lo dicevamo perché in passato era vero – oggi dobbiamo dire che si è competitivi
come imprese e come persone se si è inseriti in un territorio competitivo. Non è un gioco di parole, è un modo completamente differente di vedere le cose, a partire dal modo in cui si pensano le politiche per lo sviluppo.
Per esempio ribaltare il paradigma vuol dire che di fronte ad alcuni ostacoli allo sviluppo, le imprese non vanno lasciate sole, ma accompagnate dal sistema territoriale. Pensiamo per esempio ai temi dell’innovazione, dell’internazionalizzazione e a tutti quegli aspetti per i quali le imprese singolarmente non hanno dimensioni e competenze per farcela, ma collettivamente, come sistema, sì.
Ribaltare il paradigma significa concepire il welfare non come un costo ma come una risorsa. Le politiche di coesione sociale, oltre alla socializzazione dei rischi individuali, devono avere come obiettivo l’identificazione e la realizzazione di un dividendo sociale, cioè di un insieme di vantaggi dei quali beneficiano tutti gli attori del territorio. Un esempio di investimento sociale è il sostegno a percorsi di transizione alla vita adulta dei giovani per consentire loro di superare gli ostacoli connessi alla precarizzazione e alla rigidità del mercato abitativo.
Ribaltare il paradigma richiede una governance capace di andare oltre la dicotomia economia-sociale attraverso nuove forme di progettazione e gestione delle politiche. Una governance che sia rappresentanza dei bisogni del territorio, la giusta mediazione tra interessi individuali e collettivi, tra mercato e democrazia. Una governance che sappia riconoscere come prioritaria la centralità della dimensione relazionale e del senso.
Una sfida che per la sua portata sembrerebbe doversi risolvere in ambiti ben più vasti rispetto a quelli locali. Tuttavia, come afferma Bonomi, nell’antropologia della globalizzazione sostanziata da una società dell’incertezza dove ogni cosa sembra in rapido mutamento e allo stato liquido e gassoso, tutto sembra fare condensa nell’unico spazio che sembra solido e certo, il territorio.
Dunque, di fronte ad una crisi che nasce da lontano e che ha natura entropica non possiamo limitarci ad allargare le braccia in attesa di tempi migliori e soluzioni calate dall’alto. Sta a noi – come persone, imprese, sistema territoriale – tentare di
ritrovare un senso
a partire dall’ambito dove possiamo contribuire fattivamente a determinare le traiettorie di sviluppo. Il territorio diviene il luogo dove mettere in campo azioni in grado di portare a valore al proprio interno i cambiamenti dettati dai flussi esterni, così come costituisce il luogo dove adottare comportamenti volti ad accompagnare imprese e persone verso i flussi abbassando l’incertezza dello spazio aperto.
Luogo e flussi sintetizzano le tante polarità apparentemente opposte che dobbiamo conciliare su basi nuove, inseguendo con coraggio un equilibrio in movimento, instabile e proficuo. Come quello della bicicletta. Senza voltarci indietro nel tentativo di riproporre quanto raggiunto in passato perché, come afferma la teoria della complessità, ciò significherebbe crisi.