Intervista a Corrado Poli – autore del libro “Città flessibili”

Da pochi mesi è uscito il suo nuovo libro “Città flessibili” che si snoda intorno ad una proposta che potrebbe migliorare la qualità della vita rendendo tutte le città più vivibili in quanto più piccole. Una piccola rivoluzione?
Quando si parla di rivoluzione, in questo caso si intende una rivoluzione a livello intellettuale, cioè un modo diverso di vedere le cose: non si vuole naturalmente indurre la popolazione a scendere in piazza per rivoltare i governi urbani, piuttosto cominciare a far maturare un pensiero radicalmente alternativo, una vera e propria riforma culturale. Come avevo già anticipato nel mio libro “Rivoluzione Traffico”, il pensiero radicalmente alternativo è indispensabile per una nuova dialettica e quindi per delle nuove idee.

Si nota oggi una certa difficoltà del terziario a sviluppare Pil all’interno di centri urbani. E’ possibile una manovra correttiva a questo riguardo?
Con le grandi unità urbane e le cosiddette semplificazioni, tendiamo a investire nelle grandi opere metropolitane quali autostrade, mastodontici centri commerciali, ecc…Se ci fosse una maggiore pluralità urbana nelle aree metropolitane, con realtà medio-piccole di 200 mila abitanti, avremmo sicuramente la possibilità di migliorare il settore delle comunicazioni con un potenziamento nello scambio di informazioni. Oggi l’investimento in questi settori viene considerato uno spreco, ma aumentando l’informazione, si aumenta la cultura e con essa il Pil. In questi comparti, inoltre, saremmo molto più competitivi anche dei paesi emergenti quali Cina, India o Brasile. Un sistema basato sul ritorno alla piccola dimensione, alle specificità culturali, ci consentirebbe un aumento del Pil: tecnologie diverse sulle quali si può investire e alle quali l’economia si dovrà, prima o poi adattare.

Eppure, spesso, centri molto poveri sono realtà metropolitane molto grandi…
Succede molto spesso. Prendiamo Dhaka, in Bangladesh, con una popolazione di circa 10 milioni di abitanti. Chi si reca lì non potrà mai avere una visione d’insieme, sarà sempre impossibile conoscere i diversi aspetti che convivono entro uno spazio così esteso.
Allo stesso modo, quando ci rechiamo a New York, non usciamo spesso dai confini di Manhattan. La grande città viene quindi identificata con una parte di essa, ma le città sono tutt’altro.
Nelle periferie urbane di Dhaka, di New York, di Pechino ma anche di Roma o di Milano, si hanno dei luoghi informi, senza alcuna identità. Quello che ritengo sia opportuno, è trasformare le periferie in un numero superiore di centri che abbiano una propria identità culturale.

Lei ha fiducia nella pianificazione politica territoriale?
Ho fatto tante campagne elettorali, soprattutto in città medie che avevano dei candidati sindaci impegnati a espanderle sempre di più. In modo provocatorio, avevo proposto negli anni ‘80 di tagliare il Ponte di Venezia per poter interrompere il collegamento della città lagunare con la terraferma. Questa idea oggi è stata ripresa. Centri più piccoli ma più variegati, più creativi, più vicini ai bisogni della popolazione sarebbero la risposta ideale ai problemi di pianificazione territoriale. Naturalmente, una città medio-piccola avrà delle difficoltà di gestione, perché non riuscirebbe ad incontrare quei finanziamenti per le grandi opere possibili solo negli enormi agglomerati urbani. Il mio libro non è un programma politico né ambisce ad esserlo, ma è uno stimolo per la riflessione.

Qual è, a suo avviso, la città italiana che meglio potrebbe calzare questa forma di management proposta?
Quasi tutte le città medio-piccole italiane, ma anche europee, potrebbero calzare il mio modello. Allo stesso tempo le dico però che esempi concreti non ce ne sono, salvo qualche piccola cittadina in cui si è riusciti a creare un’identità solida. Penso ad alcune cittadine in Olanda o in Germania in cui si è deciso di abolire segnali stradali e semafori per dare vita agli Shared Spaces, una soluzione atipica, ma che ha avuto grande successo. Da esempio fungono anche le realtà che si sono reinventate grazie a festival o ad eventi culturali, o i luoghi in cui si riuniscono artisti di strada. Molte città hanno introdotto peculiarità che le hanno caratterizzate, cosa difficile da realizzare in un grande territorio dove le iniziative si disperdono e non riescono a riecheggiare dappertutto.

Quali potrebbero essere oggi i nuovi indicatori per uno sviluppo “sostenibile”?
Io rifiuto le parole”sviluppo sostenibile”, per me è una presa in giro. Ne parlano tutti ora, da destra a sinistra, da ecologisti a non ecologisti. Lo sviluppo è classificato in base a degli indicatori che registrano la qualità della vita e si interrogano sull’esistenza di un trasporto pubblico efficiente, di tecniche di smaltimento rifiuti attente all’ambiente, di aria pulita…
Una volta gli indicatori erano invece l’occupazione, l’industrializzazione di un paese. Ci si vantava negli anni ‘70 che il Veneto fosse la terza regione più industrializzata d’Italia. Oggi, invece, qualità della vita è anche attrarre know how, generare cultura, rispettare l’ambiente e tutte le indagini vengono realizzate anche con questo intendimento. Gli indicatori maggiori ad oggi rimangono sicurezza, traffico e qualità ambientale.

Sviluppare è anche osare, andare controcorrente, rivoluzionare appunto. Crede che queste tendenze siano riscontrabili in un paese come l’Italia?
Sì, penso che anche in Italia ci sia un’ampia fetta di popolazione decisa ad andare controcorrente, elaborando concetti rivoluzionari, a volte utopici.  L’unico rischio è che si abusi della parola riforma, sfruttandola in occasioni che di riformistico non hanno nulla. Andare controcorrente è inoltre necessario per non cadere nell’uniformità, cercando invece di costruire il territorio in modo dialettico.

Nel suo libro troviamo diverse citazioni, alcune riprese dalla musica, altre dalla letteratura. Quale di questi ambiti ha contribuito maggiormente alla sua formazione?
E’ vero, nelle citazioni del libro mischio ABBA e Vasco con Hegel e Einstein ma è un’impostazione ironica, provocatoria. Credo infatti che l’alta cultura debba misurarsi con la cultura pop: Guccini o Dalla sono più immediati di intellettuali storici ma la cosa divertente è proprio inserirli in un contesto di approfondimento.

Dyckman diceva che le città sono lo specchio fedele dei suoi abitanti e della loro cultura…
Questa frase mi ha sempre molto colpito. In effetti le città sono frutto della società. E se la città non funziona, nessuno può tirarsi indietro, siamo tutti un po’ responsabili…