In ambito artistico culturale, il 2011 non poteva iniziare meglio. Uno dei grandi eventi che ha richiamato appassionati e non, è sicuramente Reload, prototipo di un modello di intervento culturale nelle città. Un intervento nato e diffuso in tutta Europa e negli Stati Uniti, in un momento particolarmente difficile per l’economia mondiale e di conseguenza per la cultura.
Il principio di Reload, è quello di avvalersi di luoghi che hanno esaurito la loro funzione originaria per dare origine a luoghi pronti ad ospitare un  sistema creativo e artistico che oggi ha difficoltà a mantenersi in vita autonomamente. Con questa iniziativa, Gian Maria Tosatti – ideatore del progetto – si interroga e ci interroga sullo stato della cultura oggi e non solo, offre lo spunto per rimettere in circolo energie che hanno, a causa della crisi economica, subito una battuta d’arresto grave, creando un buco vertiginoso.
Uno dei progetti nel progetto più interessante a cui abbiamo avuto modo, chi più chi meno, di assistere e al quale di sicuro non verrà meno l’accessibilità è sicuramente quello ideato da Pietro Gaglianò, studioso di linguaggi contemporanei. Per comprendere l’effettiva valenza del suo lavoro, abbiamo voluto parlare con lui, dando così vita ad un’intervista, che svela in pieno, l’essenza reale del suo impegno e le finalità concrete di The Wall.
Lavorando intorno al concetto di muro, in questo lavoro, chiunque, curatori, artisti, addetti ai lavori hanno offerto il proprio contributo in forma libera, creando, all’interno delle ex autofficine Rosati al Pigneto, un momento di scambio sinergico suggestivo, con spunti originali dei quali appunto ce ne parla Pietro.

The Wall paradossalmente abbatte un muro, perché mette in comunicazione non solo le forme della rappresentazione dell’arte ma anche i diversi ruoli nell’ambito del settore e si muove fluidamente di luogo in luogo. Che tipo di dialogo ti aspetti venga fuori da questo progetto?
The Wall è, in prima battuta, la cronaca di un dialogo in corso, di un rapporto cercato con artisti, registi, curatori, studiosi, e di volta in volta trovato o abortito. Ognuno dei miei interlocutori ha accettato alcune regole (principalmente l’adesione a un tema specifico, quello della geopolitica, variamente declinabile) decidendo di rispondere al mio invito a partecipare, ma qualcuno ha anche rifiutato. Ognuno, poi, ha riflettuto sul tema seguendo le proprie inclinazioni, enunciando un punto di vista.
Il progetto si muove completamente al di fuori delle logiche di una mostra, è realmente la resa al pubblico di un archivio privato. E il paradosso è proprio qui: un progetto immaginato come intimo e privato riesce, a differenza di molte – troppe – mostre a dichiararsi, se non direttamente comprensibile, per lo meno indagabile, percorribile da parte del pubblico. Ecco un altro dialogo, fallibile senza dubbio, ma con un buon numero di successi registrati. Infine, più di ogni altra cosa mi premeva creare un’apertura attiva tra le arti (a vario titolo) e le emergenze connesse ai diritti umani e ai diritti civili. Il progetto nasce principalmente da un mancato riconoscimento, dall’impossibilità di individuare un passo di coerenza nei doveri che chi si occupa di linguaggi contemporanei dovrebbe assumersi.

Dove credi sia ancora necessario abbattere muri per creare connessioni e dialogo? E come fare?
Il mio interesse va ai diritti civili (che ritengo facciano parte a pieno titolo di quei diritti primari che vengono definiti umani), e alla libertà di opinione, che non si riduce alla possibilità di fare satira, ma alla possibilità concreta di acquisire gli strumenti per creare il proprio punto di vista, salvaguardando la didattica e la formazione, i rapporti tra i cittadini e le istituzioni. Hannah Arendt la chiamava “una questione di responsabilità individuale”, un atteggiamento generico nei confronti della realtà e della politica che oggi appare molto accessorio. È grave che sia così anche tra gli artisti e i curatori, claustrofobicamente asserragliati in un anacronistico e preteso diritto di aggirare l’attualità nel proprio lavoro.
Come cittadino ognuno di noi ha il diritto di scegliere da quale parte del muro collocarsi, gli artisti e gli intellettuali invece hanno un dovere: quello di sollevare il problema dell’esistenza dei muri (ormai  nel nostro paese anche quelli più astratti assumono forme pericolosamente tangibili), e aprire una discussione, tornare ad assumere l’ “impegno”, sporcarsi le mani. Torno ora da Artefiera… c’è da disperare che questo avvenga. Eccoli i muri. Io (ma non sono solo) faccio la mia piccola, piccolissima, parte. Ecco come fare.

Fino a quando pensi continuerà a girare e crescere il progetto? Quando avrà una sua collocazione? Sarà prima o poi tutto visibile e implementabile via web?
Prima o poi finirà il progetto. Ma non riesco davvero a immaginare quando per il momento. Sto già preparando, con Elisa Del Prete, la prossima apertura al pubblico, che inaugurerà a Nosadella2, a Bologna, il 25 marzo. Come già nel passaggio da Firenze a Roma, anche qui The Wall arriva più ricco di contributi, e anche con una vocazione più specifica (ampio spazio sarà dato alle performance). Poi partirà per il Sud, in una collaborazione con il progetto Archiviazioni, assumendo via via una forma più ramificata, più connessa ai territori e alle esigenze riscontrate presso i diversi pubblici. Poi, dall’autunno, Milano e Torino. Nel frattempo stiamo cercando fondi per realizzare un primo volume del catalogo, e anche per fare un sito come si deve. Finora ogni momento di vita dell’archivio è stato autoprodotto, grazie alla generosità degli autori e alla collaborazione di chi lo ha ospitato. Anche questo rappresenta una possibile traccia per altre visioni: un progetto (anche) espositivo con oltre cento contributi (e in continuo aumento) che viaggia nella mia auto e quando non è aperto al pubblico sta a casa, in soffitta. In realtà spero che tra un po’ qualche Istituzione possa pensare di acquisirlo, e destinargli un minimo di risorse come progetto permanente, è l’unico modo per mantenerlo in vita.

Reload secondo te…
Reload è quanto di meglio possa accadere, secondo me, in un sistema di veicolazione dell’arte completamente colonizzato. Mi sembra una strana contraddizione che l’arte (per propria vocazione l’aspetto più avanzato della cultura sociale, la più déreglée delle discipline umane) debba delegare ad altri attori il compito di essere realmente estranei alle logiche di sistema.
Spero che Reload costituisca un precedente: Gian Maria Tosatti ha centrato con questo progetto l’autentica risposta al bisogno di muovere idee e azioni con bilanci davvero modesti, e ha dimostrato che è necessario farlo in interazione con un tessuto vivacissimo di interlocutori. Lo immagino, infine, come un modello perfezionabile, replicabile ed esportabile (parole chiave nell’ambito della progettazione culturale di area europea): è, citando un’opera di Maurizio Nannucci “another notion of possibility”.