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Gianni Di Gregorio, co-sceneggiatore di Gomorra di Matteo Garrone, è alla sua seconda prova da regista, dopo il successo di Pranzo di Ferragosto. Lo abbiamo incontrato in occasione della conferenza stampa di presentazione di Gianni e le donne, un film con pochi dialoghi caratterizzato dall’umorismo tenue e quasi passivo del protagonista, che è lo stesso Di Gregorio.
“La comicità passiva del protagonista è anche la mia. E’ questo il mio modo di raccontare. Non riesco a farlo con seriosità. Questo dipende probabilmente dalla reazione all’educazione severa e formale che ho ricevuto, in una casa dalle gigantesche tende scure. Da piccolo leggevo Leopardi, ma col tempo ho imparato a reagire ridendo di qualsiasi cosa e la comicità è dovuta ad un vero e proprio modo di essere. La sofferenza mi spaventa e perciò cerco di esorcizzarla con una battuta, un sorriso.”
Un sorriso intriso di malinconia.
La malinconia è il motore che regge tutto il film: il tempo passa davvero, mi interessava raccontare questo.
Naturalmente c’è il rapporto con le donne…
Il mio rapporto con le donne è quello che si vede nel film: un rapporto d’amore, di devozione e sudditanza. E’ difficile spiegarlo, forse proprio per questo ho sentito l’urgenza di farne un film e sviluppare una riflessione: ormai, a questa età, le donne ci vedono come una poltrona, o un lampadario, siamo trasparenti.
Si coglie un riferimento a recenti fatti di cronaca che riguardano il premier: il rapporto tra giovani donne e uomini anziani.
Nel film ci sono certamente elementi di contemporaneità, ma tutto quello che emerge è spontaneo, casuale. Non l’ho fatto volontariamente. Ricercare la contemporaneità mi avrebbe messo ansia, ma se il film risulta provocatorio, bè, la cosa non mi dispiace. E poi i film, spesso, risultano più vicini alla realtà di quanto uno voglia, o abbia cercato di fare…
Il successo dell’esordio ha influenzato la scrittura del secondo?
Il successo di Pranzo di Ferragosto mi ha responsabilizzato ed anche un po’ terrorizzato. Avevo già in testa il mio secondo film da tempo, ma prendevo tempo, ci giravo intorno. Il produttore Angelo Barbagallo mi ha aiutato molto nel continuare su questa linea di leggerezza, di apparente esilità. Apparente perchè poi, invece, c’è stato un lavoro molto articolato sulla sceneggiatura.
Potrebbe essere il secondo capitolo di una trilogia.
Non lo so, vedremo. Forse c’è ancora da scavare nella mia vita e ci sarà ancora la possiblità di introdurre il mio vissuto nel cinema. Può esserci ancora il modo per raccontarmi. In questo secondo film, all’inizio, il rapporto con la madre non era molto sviluppato, ma pian piano si è ingigantito.
Oltre al rapporto con la madre, il film è sensibile a quello con il denaro.
Quando mia madre è morta mi ha lasciato un sacco di debiti, ed ho impiegato più di dieci anni per pagarli tutti. Probabilmente il tema dei soldi, la loro assenza, lo metterò anche in altri film…
In questo secondo film si respirano certe atmosfere da cinema francese.
Amo molto il cinema francese, per il suo garbo, certi suoi autori e il suo stile. Ma più passa il tempo e più mi rendo conto di amare tantissimo il cinema russo e la letteratura russa dell’ottocento.
C’è una Roma poco riconoscibile e molto vivace.
Al di là di Piazza Navona e dell’Ara Pacis, nel film ci sono molti angoli nascosti della città. Perchè a Roma ci sono dei quatieri del centro, come Testaccio o Trastevere, che nel tempo sono cambiati moltissimo ma hanno mantenuto una certa anima paesana. Anche gli stranieri che ci vivono, dopo un po’ si sentono parte integrante del contesto, vivono una certa familiarità con gli ambienti.