Intervista a Simone Bergantini

Durante la presentazione della tua personale “Alphabet” alla galleria “CO2” di Roma, molte persone si chiedevano che tipo di tecnica tu avessi utilizzato, in che modo operassi sul supporto fotografico e, in taluni casi, se si trattasse di fotografia o piuttosto di pittura. Come sei arrivato a realizzare dei lavori così piacevolmente destabilizzanti da un punto di vista percettivo?

Come ci sono arrivato credo sia poco interessante. Credo sia rilevante invece, mettere in luce il perché. Oggi nel nostro sistema non ci sono contenuti che non possono essere sdoganati, il che rende più o meno quasi tutto scontato. La comunicazione ha sviluppato una tale varietà di mezzi da rendere possibile al pubblico la digestione di ogni contenuto; mi è sembrato quindi molto attraente studiare e approfondire i meccanismi formali.
Anche il più profondo dei contenuti ha necessità di una forma su cui palesarsi, di una sua superficialità, quindi lavorare sulla forma e sulla percezione è per me molto semplicisticamente la necessità di raccontare il viaggio, il territorio su cui operano i miei pensieri piuttosto che la destinazione, che non necessariamente mi e’ sempre chiara.

Quanto i soggetti rappresentati nei tuoi lavori sono importanti e quanto invece possono essere considerati esclusivamente espedienti attraverso i quali manipolare ludicamente materia e materiali?

Se così fosse avrei fotografato le 10 cose più prossime all’obbiettivo. Per riallacciarmi alla prima risposta, non tutto attrae la mia attenzione durante un viaggio.

In quale misura la tua formazione accademica e il fatto di essere cresciuto a contatto con artisti e opere d’arte ha influito nel tuo personale rapporto con l’arte? Cioè, sei del tutto debitore o prendi anche criticamente le distanze dalle tue origini?

Ovviamente l’aver avuto una famiglia immersa in questo mondo e aver studiato tanto all’università l’arte contemporanea è stato come avere a disposizione la chiave di una macchina con il pieno nel serbatoio, tutto il resto lo sto improvvisando.

Hai partecipato a numerosi concorsi, vinto premi prestigiosi (nel 2009 il Premio Terna e il “Talent Calling” di Foam Magazine), esposto in gallerie importanti, qual’è il tuo personale rapporto con gli ambienti artistici istituzionali?
Se parliamo di ambiti statali, visto le ultime vicende del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, preferirei cambiare discorso…

Come si è rivelata l’esperienza oltreoceano della residenza d’artista all’ISCP di New York? La crisi economica ha generato grosse difficoltà nell’ambito del circuito artistico e molte gallerie sono state chiuse…come si ripercuote, che tu abbia potuto constatare, sulle possibilità lavorative e sulla visibilità degli artisti?
New York e’ una città semplicemente incredibile.
Per quanto riguarda la crisi, ho 33 anni, e da quanto ricordo, non ho mai vissuto in un momento economicamente florido. Inoltre fare l’artista è un lusso a cui, a ragione, nessuno riconosce uno stipendio fisso che determinerebbe semmai la morte della ricerca. Credo quindi che l’unica cosa che viene realmente modificata rispetto al passato, non è la visibilità ma la visione: nel mio lavoro ad esempio l’accento è posto sulla certezza dell’incertezza.

Il 7 maggio è uscita la tua prima pubblicazione dal titolo “V2011”, una rivisitazione delle classiche vanitas, un lavoro molto affascinante sul concetto della morte e della brevità della vita, tema tanto caro ai fiamminghi del ‘600. Quanto il tema della caducità della vita e dei beni materiali permea la tua produzione artistica? E’ un’iconografia ricorrente?
Iconograficamente non è ricorrente, concettualmente invece è un tema che mi appartiene.

Attualmente stai lavorando alla serie di bianchi e neri che andranno a confluire nel libro Black boxes; quando è prevista l’uscita del libro e da chi sarà edita?
Per fortuna finora ho trovato nel mio percorso delle grandi persone che credono fermamente in questo progetto, le quali mi stanno dando la possibilità di lavorare serenamente senza scadenze. Il libro uscirà solo quando sentiremo che sarà maturo, per quanto riguarda l’editore ancora non ci siamo posti il problema.

Secondo la tua opinione, esiste un percorso artistico-formativo che non ci si può esimere dal compiere per crescere ed essere visibili e apprezzati?
Da un punto di vista qualitativo credo, “crocianamente” parlando, che ogni intuizione goda di pari dignità, credo che una formazione contadina possa generare intuizioni artisticamente profonde al pari di una raffinata istruzione internazionale. Eppure esiste un fattore indispensabile per crescere in questo sistema che riguarda l’aspetto quantitativo del sapersi “raccontare”.

Approfondimenti:
www.simonebergantini.com