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Incede con passo da cerimonia, seguita dal curatore Eugenio Viola, su un palco completamente sgombro al Teatro dal Verme, dove lo schermo proietta il suo ritratto: Marina Abramovic, 65 anni, fra le più famose, controverse, chiacchierate, potenti, irriverenti e glamour artiste dell’epoca contemporanea. Indossa una camicia bianca con cucite due lunghe bande a guisa di stola sacerdotale e una gonna stretch fino alle ginocchia, tacchi alti e treccia nera arrotolata al lato dell’orecchio sinistro.
Saluta in italiano e comincia la sua lecture con la traduzione consecutiva di Eugenio Viola, con tutta la sua presenza di intensa donna dei Balcani: l’argomento è la storia della performance, attraverso momenti salienti della sua carriera e non solo, con proiezione di video della sua collezione personale, che rappresentano sue azioni o di altri performer storici, come Vito Acconci, Gina Pane o di giovani sperimentatori.
Magnetica e catalizzatrice dell’attenzione della platea, che in silenzio la segue nel suo sfilare elegante: non ci si crede che questa altera signora si sia sottoposta nella sua carriera a prove di resistenza fisica e psicologica di estenuante durezza, mostrandosi in tutti I suoi limiti.
Eppure eccola lì a dire: “ho cominciato dipingendo alcune figure astratte, con gesto espressivo. Un amico di mio padre mi accompagnò a comprare gli oli. Poi si mise a stracciare le tele. Le colorò con colla e vari pigmenti e le lasciò a terra. In seguito le raccolsi e le appesi ad asciugare. Notai i giorni dopo i colori misti alla colla colati per terra. Ottenni così la mia prima lezione sull’arte: non è il risultato importante, quanto il processo che ti porta a produrlo”.
Marina definisce la sua arte un colpo allo stomaco, qualcosa capace di risvegliare emozioni viscerali e dolorose. Un buon lavoro d’arte è qualcosa che scaturisce da un’urgenza, un furore eroico, un bramosa esigenza dell’artista di esprimersi.
La fortuna di essere serba, le ha permesso di crescere in una cultura “ponte”, fra Est e Ovest: presto ha viaggiato a Est per riportare insegnamenti a Ovest, e creare contaminazioni.
La sua definizione di performance non ha la pretesa dell’universalità, ma della personalità sì: non è teatro, non è commedia, non è danza, nè musica…è una forma fisica e psicologica in un tempo specifico e spazio, Senza pubblico non c’è performance. È il pubblico che completa il lavoro: siamo di fronte a una forma di arte vivente. Bisogna essere in quel preciso momento nel quale sta accadendo l’atto performativo per farne parte, altrimenti rimane solo la documentazione, per la quale il video è il mezzo privilegiato di narrazione.
La lecture di Marina Abramovic al Teatro dal Verme cade a metà della settimana inaugurale dell’Abramovic’s method, titolo del suo ultimo progetto studiato per Milano e il PAC , a cura di Diego Sileo e Eugenio Viola e salutato con una lunga coda di ore lunedì 19 marzo.
In cosa consiste il metodo di Marina? Lo spogliarsi di ogni fronzolo tecnologico, di ogni ansia frettolosa e uniformarsi con un camice bianco, fermando il tempo per dedicarselo. Un contratto viene sottoscritto fra l’artista e il performer, dove quest’ultimo dichiara di mettere a disposizione il suo tempo. L’azione è un’esperienza personale di riappropriazione di sé, esposti anche all’energia sprigionata da minerali in mostra.
Dopo la grande azione che l’ha tenuta seduta ad un tavolo per circa tre mesi a disposizione di qualsiasi persona volesse incrociare il suo sguardo silenzioso, nel 2010 al MoMa di New York dal titolo The Artist is present, l’artista serba invita il pubblico in prima persona a realizzare la performance. Dopo un primo briefing che per la settimana inaugurale è stato direttamente condotto da lei, I visitatori diventano performer con semplici istruzioni e un camice bianco, lasciandosi andare alla concentrazione per circa due ore e mettendosi a disposizione del pubblico dei visitatori. Un processo che invita a lavorare su se stessi: già al MoMa Marina aveva riproposto alcune delle sue azioni storiche al pubblico, invitandolo a rimetterle in scena, a provarle sulla propria pelle. Ora I milanesi si offrono alla sperimentazione e agli occhi degli stessi milanesi, animando le sale del PAC.
La perfomance è complessa: all’ingresso si viene accolti dal tavolo della muta conversazione del MoMa dove su un lato campeggiano molti dei ritratti delle persone fermate a incrociare lo sguardo di Marina, e sull’altro lato i ritratti dell’artista stessa colti nel corso dei mesi, con gli evidenti segni dello sfinimento, ma anche delle emozioni attraversate.
Ed ecco poi incontrare una fila di gabbie di rame, con all’esatto centro persone in camice bianco e cuffie. Sono tre le posizioni da sperimentare nell’arco di quasi due ore: seduti, sdraiati, ritti. Cuffie isolano dai rumori circostanti. La richiesta è quella del silenzio, della concentrazione su di sè e interazione muta con lo sguardo verso il pubblico che visita con discrezione la scena.
Si è proiettati in mezzo ad un’azione pulsante, dove il tempo si sospende per stare in un presente permanente. Colpi di metronomo scandiscono l’ambiente, ma quasi risuonano come un battito del cuore. Dalla balconata i visitatori spiano con cannocchiali e binocoli i perfomers, come fossero bestie esotiche da tenere a debita distanza di sicurezza, ma sono visitatori come loro, magari amici.
Un repertorio di lavori in video di Abramovic è in mostra nella galleria superiore del PAC. L’artista ha regalato anche una speciale serata al Cinema Apollo con la presentazione del documentario “the Artist is present” del regista Matthew Akers (USA, 2012, 106’), che narra la performance al MoMa e ripercorre la sua carriera con i principali lavori che l’hanno portata a questa impresa, giudicata “estenuante pure per lei”.
La sua ultima personale dal titolo ispirante With eyes closed, I see Happiness è in corso presso la Galleria Lia Rumma fino al 5 maggio. La mostra the Abramovic’s method, patrocinata dal Comune di Milano e organizzata grazie al Gruppo Sole24ORE, è visitabile fino al 10 giugno.