“For a better world”: lo slogan scelto dalle Nazioni Unite per festeggiare il 2012 come anno internazionale della cooperazione non brilla per originalità. Ma se lo si commisura allo stato del pianeta dal punto di vista sociale, economico e ambientale emerge in tutta la sua rilevanza la sfida che le imprese cooperative sono chiamate ad affrontare per contribuire all’obiettivo di un mondo migliore. Sfida che può essere articolata in almeno due direzioni. La prima consiste nel mettere in luce l’effettivo contributo di queste imprese, guardando all’impatto da loro generato ai vari livelli e nei diversi contesti e verificando così, al di là della retorica, quanto effettivamente sono in grado di migliorare le condizioni socioeconomiche di persone, famiglie, comunità. La seconda declinazione, poco considerata dallo stesso movimento cooperativo, riguarda il sistema delle alleanze all’interno del quale le imprese cooperative intendono agire. Sarebbe infatti velleitario ipotizzare che una sola, specifica forma organizzativa, per quanto orientata nella direzione del bene comune, possa farsi carico di una missione così impegnativa.

La produzione culturale potrebbe rappresentare, da questo punto di vista, un campo di azione davvero rilevante per misurare il contributo della cooperazione, anche se l’uso del condizionale è dovuto al fatto che finora l’interesse è stato assorbito da agricoltura, credito, consumo, welfare, ovvero da settori che vedono una più massiccia presenza di imprese di questa particolare specie. Eppure la cultura si caratterizza per una radicalizzazione degli elementi di sfida che hanno segnato la modernità e il contemporaneo e che si risolvono, in buona sostanza, in un dualismo tra le istituzioni dello stato e del mercato. Un dualismo che ha lasciato poco spazio per forme diverse, capaci di combinare fattori che nella dialettica dominante paiono inconciliabili: economicità e interesse pubblico, universalismo e qualità, partecipazione ed efficienza. Da una parte l’offerta istituzionale pubblica, al centro di una drammatica crisi di sostenibilità, e dall’altra la produzione mainstream dell’economia capitalista, sempre più polarizzata su modelli standardizzati e globalizzati.

Tutto ciò che rimane è rappresentato come un pulviscolo di organizzazioni “terze” – non a caso variamente denominate “terzo settore”, “non profit”, ecc. – che soprattutto in campo culturale non sembrano in grado di configurarsi come un comparto unitario…

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